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Dove va la Siria?
Il crollo di un regime dispotico, la natura del nuovo potere islamista, il futuro di una rivoluzione siriana
29 Dicembre 2024
La caduta del regime di Bashar al-Assad è stata una risultante indiretta dello scenario mondiale. Ma non di un misterioso complotto. I campisti cercano ancora una volta regie occulte, quando tutto è avvenuto alla luce del sole. Semplicemente la guerra d'invasione dell'Ucraina da parte di Putin ha privato il regime siriano dell'appoggio decisivo dell'imperialismo russo. Mentre la guerra dello stato sionista in territorio libanese ha impedito il soccorso ad Assad da parte delle forze di Hezbollah. La defezione obbligata dei suoi alleati tradizionali ha condannato a morte un regime tenuto in piedi esclusivamente dal loro sostegno.
La base materiale del regime era infatti estremamente ristretta. Il clan allargato della famiglia Assad concentrava nelle proprie mani, in forma diretta o indiretta, tutte le leve dell'economia e dell'apparato statale. La stessa apertura al capitale straniero e alle relazioni diplomatiche con gli imperialismi – avviate già a partire dagli anni '80, e poi dispiegate negli anni '90 e 2000 – si combinavano col controllo familiare delle grandi proprietà immobiliari, delle telecomunicazioni, del sistema bancario. Che a sua volta integrava nelle proprie strutture la fascia sociale superiore della comunità alauita (sciita), minoranza privilegiata della borghesia siriana. Parallelamente, l'enorme apparato repressivo del regime, nella sua articolazione capillare, faceva egualmente capo alla rete parentale di Assad e al suo esercizio di un terrore spietato.
La ribellione di massa del 2011, sulla scia delle rivoluzioni arabe in Tunisia ed Egitto, scosse fortemente il regime. Il successivo sviluppo della reazione panislamista, inizialmente favorita dallo stesso Assad in funzione controrivoluzionaria, da un lato ebbe ragione della rivoluzione siriana ma dall'altro impegnò il regime in una guerra civile logorante che ne indebolì ulteriormente la capacità di tenuta. Il peso specifico del sostegno russo e iraniano ad Assad crebbe nell'ultimo decennio in misura proporzionale all'indebolimento del regime. Il suo venir meno è stato pertanto fatale.
LA DINAMICA DEL CROLLO, LA NATURA DEI VINCITORI
La dinamica del crollo è stata rapidissima. Oltre ogni possibile previsione degli stessi protagonisti. In dieci giorni si è sfaldato come neve al sole un regime che durava da più di mezzo secolo.
A dissolversi innanzitutto è stato l'apparato militare. Dopo la caduta di Aleppo, e poi di Homs, è crollata ogni residua linea di difesa. La fuga di Assad in Russia si è combinata con la resa sul campo dei suoi uomini. Assad stesso, negli ultimi giorni, ha dato alle sue strutture di riferimento l'indicazione della desistenza. L'abbandono a terra delle divise da parte di migliaia di soldati e ufficiali ha immortalato l'evento. Le truppe islamiste di Al Jolani sono entrate a Damasco senza colpo ferire, dopo aver probabilmente negoziato dietro le quinte la rinuncia a ogni resistenza da parte delle residue forze assadiste, in cambio di una promessa magnanimità.
La natura politica dei vincitori è inequivoca e al tempo stesso composita.
La forza dominante, HTS, guidata da Al Jolani, è frutto dell'accorpamento di tredici frazioni della galassia islamista, dopo la sconfitta dell'ISIS, e la conversione “nazionalista” del principale troncone siriano di Al Qaeda. La sua matrice è indiscutibilmente reazionaria. Il suo governo della città di Idlib, dove HTS si era da tempo arroccata, ha seguito non a caso precetti islamisti più o meno rigorosi.
La seconda forza nel campo dei vincitori è rappresentata dall'Esercito Nazionale Siriano (nel quale dieci anni fa erano confluiti i resti dell'Esercito Libero Siriano, inizialmente composto da soldati e ufficiali che dopo il 2011 avevano rotto con Assad sposando la sollevazione popolare). Questa organizzazione può essere oggi considerata la più diretta agenzia della Turchia in Siria, pienamente subordinata ai suoi interessi e alla sua politica. Più in generale, la Turchia emerge come forza dominante della nuova Siria, rimpiazzando il vecchio asse russo-iraniano.
Chiarita la matrice reazionaria, quale sarà l'evoluzione dello scenario siriano? È difficile avanzare una previsione attendibile. Ma è importante decifrare le mosse dei protagonisti, e il loro significato. La linea generale di Al Jolani è oggi quella di chi lavora al proprio accreditamento politico e diplomatico a 360 gradi, in Siria e sul piano internazionale.
L'ECUMENISMO RECITATO DI AL JOLANI
Sicuramente sorpreso dalla rapidità della propria vittoria, timoroso di perdere il controllo della situazione, spaventato dalle dimensioni enormi della crisi siriana (amministrativa, economica, militare), Al Jolani cerca una base d'appoggio per il nuovo potere. In Siria il suo sforzo principale consiste nella ricostruzione dello Stato borghese, anche attraverso l'assimilazione di ampi settori del vecchio apparato. Da qui la promessa di una larga amnistia; della dissoluzione delle milizie islamiste in un nuovo esercito regolare; della rinuncia a “vendette” contro i vinti; di una apertura a tutte le confessioni religiose e gruppi etnici del paese; del rispetto dei diritti delle donne; di una nuova Costituzione (non meglio precisata) e di successive elezioni.
Sul piano dell'amministrazione corrente, Al Jolani sta cercando un punto di equilibrio tra le ambizioni della propria cerchia di provenienza Idlib e la conservazione della vecchia burocrazia statale, nazionale e locale. La composizione mista del governo provvisorio “di salvezza nazionale”, e il mandato trimestrale a questi assegnato, risponde esattamente a tale equilibrio.
Sul piano economico, la direzione di marcia di Al Jolani è quella della liberalizzazione del mercato interno, a partire dalla messa all'asta dei monopoli parastatali e delle immense proprietà del clan Assad: cercando di soddisfare gli appetiti di una borghesia siriana, in parte interna e in parte emigrata, interessata a capitalizzare la svolta inattesa nel proprio interesse di classe.
L'ecumenismo di Al Jolani non è meno ampio in politica estera. Tutt'altro. All'imperialismo russo, pesantemente sconfitto, cerca di risparmiare l'umiliazione, offrendo il rispetto delle sue basi militari sul Mediterraneo e in ogni caso la garanzia di una ritirata ordinata. Allo stato sionista concede la futura rinuncia della Siria a ogni politica antiisraeliana nel nome di una “equidistanza” tra interessi regionali contrapposti: un de profundis per palestinesi ed Hezbollah. Agli imperialismi d'Occidente si offre una totale normalizzazione delle relazioni in cambio dell'auspicato ritiro delle sanzioni.
IL PELLEGRINAGGIO A DAMASCO DELLE CANCELLERIE IMPERIALISTE.
LA NUOVA SPARTIZIONE DEL MEDIO ORIENTE
Il pellegrinaggio affannoso di tutte le cancellerie imperialiste a Damasco è sintomatico. Ogni paese imperialista mira a incassare un utile per i propri interessi, a dispetto dei propri rivali. La Francia fa leva sul proprio ruolo in Libano, anche in qualità di garante della tregua in atto, per irradiarsi nella vicina Siria. L'Italia, che aveva giocato d'anticipo sulla concorrenza aprendo in estate la propria ambasciata a Damasco (a sostegno di Assad), accampa i diritti di partner privilegiato della nuova Siria scavalcando la Francia. Gran Bretagna e Germania offrono a loro volta disponibilità creditizie al nuovo potere puntando a ipotecare a proprio vantaggio la ricostruzione della Siria. Tutti esibiscono garanzie future in cambio di concessioni immediate. Tutti non vedono l'ora di liberarsi dei profughi siriani rispedendoli nel loro paese, e intanto bloccando ogni nuova immigrazione dalla Siria.
La verità è che il crollo del regime di Assad riapre il grande gioco della spartizione del Medio Oriente e delle sue aree d'influenza. Un secolo fa furono gli accordi di Sykes Picot a spartire la regione tra imperialismo francese e britannico. Quali saranno oggi gli architetti dei nuovi equilibri? A differenza di un secolo fa, quando ancora l'imperialismo britannico poteva vantare la propria egemonia internazionale, l'imperialismo mondiale è oggi privo di un proprio baricentro. La contesa tra vecchie e nuove potenze imperialiste infuria su tutti gli scacchieri, ed è già entrata nella stessa partita siriana.
L'imperialismo russo ha subito un colpo molto pesante con la caduta del regime siriano. Dieci anni fa la vittoria militare della Russia in Siria a garanzia di Assad accrebbe a dismisura il suo prestigio in Medio Oriente, e non solo: la stessa penetrazione della Russia in Africa nel ruolo di protettore militare di nuovi regimi (Mali, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Niger, Ciad), ai danni prevalentemente dell'imperialismo francese, fu l'incasso della vittoria riportata in Siria. Per la stessa ragione, la caduta di Assad è oggi una disfatta russa ben al di là della Siria. E con essa, una nuova sconfitta del regime iraniano alleato, dopo lo smacco subito in Libano.
Tuttavia non è chiaro chi rimpiazzerà lo spazio vacante. Lo stato sionista mira a capitalizzare a proprio vantaggio la sconfitta dell'asse iraniano, a partire dall'occupazione sfrontata di territorio siriano nel Golan, nel silenzio della diplomazia mondiale: il disegno della Grande Israele non conosce confini. Ma il regime reazionario di Erdogan coltiva specularmente le stesse mire, disponendo oggi in Siria di leve invidiabili ad altri precluse: una diretta presenza militare nello schieramento vittorioso, e dunque il controllo politico indiretto sul nuovo governo siriano.
La contrapposizione diplomatica della Turchia a Israele sulla vicenda palestinese ha guadagnato a Erdogan nuove entrature nell'opinione pubblica delle masse arabe, e dunque uno spazio di manovra più ampio. La collocazione turca sulla linea di confine della NATO, e insieme le sue relazioni privilegiate con la Russia, consentono ad Erdogan di giocare su ogni tavolo in funzione del proprio disegno: un disegno neo-ottomano, che si irradia dal Nord Africa (Libia) alla penisola arabica sino al Sudan. Se un secolo fa la Siria nacque dalle spoglie dell'Impero ottomano, oggi l'ambizione neo-ottomana passa per il controllo turco della Siria. Una sorta di protettorato turco su Damasco.
LA MINACCIA MORTALE CHE GRAVA SUI CURDI
Questo disegno strategico richiede l'annientamento del popolo curdo. Tutte le pedine delle scenario internazionale sembrano disporsi nuovamente contro l'amministrazione curda del Rojava.
L'imperialismo USA nel suo proprio interesse sostenne dal 2016 le milizie curde siriane nella guerra contro ISIS, anche per frenare l'influenza russo-iraniana in Siria. La splendida vittoria militare curda a Kobane dimostrò agli occhi del mondo il coraggio e le capacità delle milizie curde di YPG contro la barbarie panislamista. L'espansione territoriale dell'amministrazione curda nel Rojava fu un effetto di quella vittoria. Ma nel 2019 Trump tradì i curdi con un primo ritiro dei marines e l'offerta di un semaforo verde all'offensiva militare turca contro il Rojava (chiamata beffardamente “Ramo d'ulivo”). La direzione curda strinse allora un patto inedito con Assad, accettando l'ingresso di forze militari russe e siriane come forze di interposizione. Ora la caduta di Assad rimescola nuovamente tutte le carte.
Erdogan chiede perentoriamente al nuovo governo siriano di disarmare il Rojava. Al Jolani ha pubblicamente dichiarato che la nuova Siria non potrà consentire una autonoma amministrazione curda nel nord-est della Siria. Gli USA hanno sinora mediato fra le truppe dell'Esercito Nazionale Siriano (filoturco) e le milizie di YPG. Ma l'annunciata amministrazione Trump ha già dichiarato che gli USA non si faranno coinvolgere. In altri termini, lasceranno fare alla Turchia. La direzione curda scrive a Trump chiedendo rassicurazioni, ma è molto difficile che possa ottenerle.
Una volta di più si conferma una verità di fondo: i curdi, al pari dei palestinesi, hanno diritto alla propria autodeterminazione nazionale, ma nessuna autodeterminazione dei popoli oppressi del Medio Oriente è compatibile con la dominazione imperialista e sionista della regione.
LE PROSPETTIVE DI UNA RIVOLUZIONE SIRIANA
Come evolverà la crisi siriana sul versante della mobilitazione sociale? Lo scenario è aperto a ogni sbocco. A differenza di Ben Alì o Mubarak, Assad non è caduto per via di una sollevazione popolare, ma per effetto del disfacimento del regime. Chi parla dell'ingresso delle milizie islamiste a Damasco come vittoria della “rivoluzione siriana” confonde la sollevazione del 2011 con la realtà, ben diversa, dell'ultimo decennio. Ma al polo opposto, l'area campista parastalinista e/o rossobruna che ha sempre descritto il regime dispotico di Assad come progressivo, democratico, socialmente avanzato, antimperialista – e per questo protetto dal popolo – non può capire l'entusiasmo popolare per la sua caduta. Un entusiasmo liberatorio che ha invaso strade e piazze delle città siriane, un entusiasmo persino incredulo, e anche per questo gioioso. Potrà trasformarsi questo entusiasmo in un processo di radicalizzazione di massa? Al momento questo salto non si registra. Ma nulla può essere escluso per il futuro.
La Siria è un paese distrutto. Più del 90% della popolazione è sotto la soglia della povertà. L'88% delle infrastrutture è crollato. Metà della popolazione è sfollata o in esilio. La lira siriana è carta straccia, l'inflazione è fuori controllo. Tutte le esigenze sociali più elementari cozzano con i programmi liberisti del nuovo governo e con gli appetiti imperialisti. Tutte le domande democratiche di libertà e giustizia cozzano con la salvaguardia del vecchio apparato statale. E anche con la pretesa di una nuova Costituzione scritta dagli islamisti senza una democratica assemblea costituente.
Il nuovo governo sta cercando di pilotare una transizione dall'alto prima che possa esplodere una sollevazione dal basso. Ma il calendario politico siriano dei prossimi mesi offrirà molte occasioni all'irrompere dell'iniziativa di massa. Solo un'autorganizzazione democratica delle masse oppresse – dei lavoratori e lavoratrici, dei contadini, della maggioranza della popolazione povera – e un governo operaio e contadino su di questa basato, potrà realizzare una vera svolta. Come ha scritto Samar Yazbek, poetessa siriana in esilio, «Bashar Assad è caduto, ma la vera rivoluzione dei siriani deve ancora cominciare» (Le Monde, 24 dicembre).
Al tempo stesso, come ha dimostrato una volta di più, seppur a negativo, l'esperienza delle rivoluzioni arabe del 2010/2011, solo una direzione marxista rivoluzionaria potrà dare un futuro alla rivoluzione. In Siria e non solo. La costruzione di questa direzione è il compito del giorno dei rivoluzionari.