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L'assassinio di Satnam Singh, uno squarcio sulla società borghese
Un invito alla mobilitazione generale
24 Giugno 2024
L'assassinio di Satnam Singh – spappolato dallo sfruttamento e gettato sanguinante davanti a casa con un braccio amputato in una cassetta di frutta – ha richiamato l'ennesimo pianto ipocrita di tutta la stampa borghese sulle condizioni del lavoro degli immigrati e delle immigrate, e l'immancabile giostra di promesse a futura memoria. Sino al prossimo crimine, naturalmente, dopo il quale il giro ricomincia ogni volta.
La situazione è semplice nella sua brutalità. Larga parte dell'agricoltura tricolore si fonda sul supersfruttamento di manodopera immigrata, prevalentemente asiatica e africana, ma anche est-europea. Quasi 300000 braccianti sono costretti a lavorare con salari da fame, sino a meno di un euro all'ora, per 12-14 ore giornaliere (e a volte più), senza le minime garanzie di sicurezza, condannati a pagare l'affitto in baracche di lamiera senza bagno, umiliati giorno dopo giorno da padroni e padroncini che li trattano alla stregua degli schiavi. Nel migliore dei casi si tratta di salariati con contratti stagionali, che non possono spesso essere trasformati in rapporti di lavoro a tempo determinato o indeterminato per via dell'esistenza di tetti massimi legali invalicabili. Contratti stagionali scritti peraltro sulla carta e per lo più ignorati nei fatti. Ma molte volte la realtà è anche peggiore.
Il metodo usato dall'azienda agricola del padron Lovato, assassino di Satnam, è esemplare. Il lavoratore viene assunto, lo si fa lavorare in condizioni invivibili per il numero di giorni necessari a fargli maturare il sussidio di disoccupazione, poi viene licenziato per finta, e lo si tiene a lavorare alle condizioni di prima o ancora più infami: in nero, ma con metà paga, dato che l'altra parte la paga l'INPS. In caso di accertamento giudiziario, l'accusa di truffa viene scaricata sul lavoratore.
Questo metodo dello sfruttamento in nero con truffa padronale non è affatto un caso limite, ma una regola diffusa. La ricattabilità del lavoratore è ovunque la leva del suo sfruttamento brutale. Il caporalato il braccio armato del padrone.
Non solo. I padroni sfruttatori, che truffano l'INPS attraverso il lavoro nero, sono gli stessi che la fanno franca. Sia perché le ispezioni sono rare, sia perché, anche quando incorrono in un accertamento imprevisto, risolvono la cosa col pagamento di qualche multa (già contabilizzata a bilancio) e con la promessa di riparare in futuro. Dopo di che tutto torna come prima. Ed anzi le stesse aziende che non dichiarano dipendenti grazie alla truffa del lavoro nero incassano spesso i fondi europei. Salvo poi portare in piazza i trattori per rivendicare sussidi maggiori. Questa è l'agricoltura tricolore che il ministro Lollobrigida invita a non criminalizzare. Ciò che significa letteralmente coprire i criminali. A partire dalla roccaforte elettorale di Fratelli d'Italia nell'agro pontino.
La disparità di trattamento è scandalosa. Un immigrato senza permesso di soggiorno, perché magari licenziato, finisce nel lager di un centro per il rimpatrio. Ma il padrone Lovato che ha scaricato davanti a casa un uomo morente e il suo braccio amputato in una cassa di frutta, che ha lavato le tracce di sangue dal furgone, che ha sequestrato i telefoni dei suoi compagni di lavoro per impedire loro di chiamare i soccorsi, resta tranquillamente a piede libero. Ed anzi accusa Satnam di leggerezza, cioè di essersela cercata e di avergli così procurato dei guai. La natura della democrazia borghese è riassunta alla perfezione da questa immonda vicenda.
Questa vicenda chiama in causa precise responsabilità politiche. Governi borghesi di ogni colore hanno vantato per decenni la “lotta al caporalato”. Il governo Renzi nel 2014 varò la trovata della Rete del lavoro agricolo di qualità come strumento di normalizzazione legale dei rapporti di lavoro nei campi. Tutti i governi successivi, inclusi i governi Conte e Draghi, si sono appoggiati sulla stessa retorica legalitaria. Sarebbe bastato “premiare” le aziende che non ricorrono al caporalato per risolvere il problema.
Ebbene, parlano i numeri. Dopo dieci anni dal suo varo, su una platea di 175000 aziende solo 6000 sono iscritte alla rete. Cosa significa? Significa che il mercato capitalista e l'assenza di controlli (anche per il taglio verticale degli ispettori) rende assai più conveniente il supersfruttamento illegale rispetto all'osservanza delle norme. Tanto più in assenza di punizioni reali per chi le viola. Quanto ai “premi” previsti per le aziende regolari (bollini di qualità per i loro prodotti o nuove decontribuzioni), sono ben poca cosa rispetto ai profitti assicurati dal lavoro schiavile. Per non parlare del fatto che i premi sono incassati assai spesso anche da aziende che “regolari” non lo sono affatto e non hanno alcuna intenzione di diventarlo.
Che fare, allora? È necessario che il movimento operaio e sindacale vada oltre la denuncia del malaffare nelle campagne, e apra una vertenza vera attorno a precise rivendicazioni di classe.
Certo, la Bossi-Fini, ben conservata da tutti i governi per oltre vent'anni, va cancellata perché funzionale allo sfruttamento. Ma non basta. Occorre rivendicare l'introduzione del reato penale per i padroni che ricorrono al lavoro nero; la regolarizzazione legale e contrattuale di tutti i salariati impiegati nei campi, a partire dall'immediato permesso di soggiorno per i lavoratori stranieri che denunciano irregolarità; un controllo sindacale capillare sull'intero territorio nazionale, anche col ricorso strutture di autodifesa contro violenze e minacce dei caporali.
Solo la forza del movimento operaio può imporre una svolta nelle campagne.
E non solo. Il tema del lavoro precario, supersfruttato, sottopagato, si estende a tutti i settori dell'economia: nella produzione, nei servizi, nella logistica, nell'edilizia, nei trasporti, nella ristorazione, nel turismo. Sei milioni di salariati guadagnano meno di 850 euro al mese, altri due milioni ricevono meno di 1200 euro. Il precariato, la pratica degli appalti e dei subappalti con la corsa al massimo ribasso, il dilagare del part time involontario, in particolare nel lavoro femminile, la vergogna degli stage non pagati per milioni di giovani, sono tutti strumenti fra loro combinati che schiacciano verso il basso salari e diritti. È necessaria allora una vertenza generale che metta insieme la rivendicazione di un forte aumento salariale per tutti con la cancellazione di tutte le forme di lavoro precario. Per i lavoratori e le lavoratrici del Nord e del Sud, per italiani/e e migranti. A pari lavoro, pari diritti per tutte e per tutti.
Ben vengano i referendum contro il Jobs Act promosso dalla CGIL. È una battaglia che deve impegnare tutti. Ma non basta. Occorre ricondurre l'impegno referendario ad una piattaforma generale che unisca in un unico fronte reale di lotta 18 milioni di salariati. Una forza enorme. Una forza che può ribaltare dal basso l'intero scenario politico. Una forza che se organizzata e cosciente può ambire a imporre un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, che rompa col capitalismo e riorganizzi tutta la società su basi nuove. L'unica vera alternativa per gli sfruttati e gli oppressi.