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Il pensiero ecologico di Lenin
#centovoltelenin
22 Aprile 2024
Lenin fu l’ispiratore delle prime iniziative del potere sovietico in campo ambientale. E non per caso. Le prove della sua attenzione per i problemi della natura si possono rintracciare in diversi scritti. È questo un lato inedito del suo pensiero e della sua opera, e la conferma che un’altra via di sviluppo era possibile per l’URSS e per il socialismo. Anche in campo ecologico, lo stalinismo fu la negazione dell’eredità leniniana e delle potenzialità rivoluzionarie dischiuse dall’Ottobre
Nel giorno della nascita di Lenin, proseguiamo la nostra serie di articoli del centenario riproponendo questo prezioso testo del compianto nostro compagno Tiziano Bagarolo. Il saggio, per molti aspetti pionieristico ancora oggi, e non solo fra gli studi italiani, venne pubblicato per la prima volta sul numero 3 della rivista Marxismo Rivoluzionario, uscito nel 2004, con il titolo "Lenin sconosciuto. La rivoluzione sovietica e l'ecologia".
C’è un aspetto, certo non dei maggiori ma neppure trascurabile, del pensiero e dell’opera di Lenin che resta sostanzialmente sconosciuto ai militanti, e anche alla maggioranza degli studiosi, e che invece merita di essere recuperato e conosciuto, non per mero scrupolo storico ma per ragioni sostanziali. Si tratta del contributo teorico e soprattutto pratico che il rivoluzionario russo ha dato nel campo della politica dell’ambiente.
Questo “Lenin sconosciuto” è una smentita di una certa rappresentazione convenzionale che è stata data molte volte dell’uomo e del dirigente rivoluzionario come insensibile a tutto ciò che non fosse lotta ideologica e azione immediata per il potere.
Rappresenta anche la rivelazione di una precoce e insospettata attenzione del potere dei soviet per i problemi ecologici, che proprio da Lenin ebbe un significativo incoraggiamento, e la confutazione di diffusi luoghi comuni quali la cecità del marxismo nei confronti della natura o l’inevitabile “fallimento ecologico” del socialismo.
La ricostruzione di questa dimensione inedita del grande rivoluzionario russo ci consente inoltre di rispondere, con solidi argomenti e precisi riferimenti ai fatti storici, all’imputazione rivolta in anni recenti ai padri del marxismo, e segnatamente a Lenin, per il preteso “divorzio” fra il marxismo (e il socialismo) e l’ecologia, divorzio che avrebbe contribuito agli esiti disastrosi sul terreno ambientale delle prime società post-capitalistiche e che più in generale avrebbe provocato il ritardo con cui il movimento operaio è arrivato a fare i conti teorici e pratici con la questione dell’ambiente.
Come vedremo, è vero esattamente il contrario. Non solo Lenin, nel suo sforzo di analisi delle contraddizioni del capitalismo, manifestò fin dai primi anni del Novecento un’attenzione non comune per temi che oggi diremmo ecologici ma, una volta alla guida del potere sovietico, pur nelle condizioni estremamente sfavorevoli della guerra civile, si preoccupò di impostare una strategia di protezione della natura e di gestione razionale delle risorse naturali che avrebbe dato per oltre un decennio risultati più che positivi. E che prefigurava la possibilità di un “socialismo ecologico” che non si è tradotto nella realtà non per congeniti vizi ideologici del marxismo o del “leninismo”, come alcuni pretendono, ma per l’involuzione staliniana della Russia post-rivoluzionaria, nelle condizioni tremende create dalla degenerazione burocratica, dalla sconfitta della rivoluzione in Occidente e dall’isolamento internazionale del primo Stato operaio.
LENIN E LA POLITICA SOVIETICA DI PROTEZIONE DELLA NATURA
Fino a una ventina d’anni fa, in Occidente si conosceva ben poco della politica di protezione della natura attuata nei primi anni del potere sovietico e gli studiosi occidentali giudicavano pura propaganda le affermazioni degli storici sovietici che attribuivano a Lenin l’ispirazione di tale politica. Va aggiunto che la disastrosa situazione dell’ambiente in URSS, venuta alla luce con l’incidente di Chernobyl e con la crisi del regime burocratico, nonché note vicende di repressione politica contro studiosi di primo piano, come il famigerato caso Lysenko-Vavilov negli anni quaranta, non incoraggiavano certo a pensare all’URSS come a un modello nel campo dell’ecologia e delle politiche ambientali.
Un quadro affatto diverso e una vicenda storica di estremo interesse, invece, è stata rivelata dagli studi dello storico americano Douglas Robert Weiner che, approfittando delle aperture del periodo gorbacioviano, ha potuto condurre una ricerca approfondita negli archivi sovietici riportando alla luce documenti originali da decenni interdetti anche agli studiosi sovietici. La ricerca di Weiner non solo ha confermato il ruolo diretto svolto da Lenin nella promozione delle politiche ambientali del potere sovietico ma ha altresì consentito di apprezzarne il valore intrinseco e di comprendere un dato storico fondamentale: l’impulso e l’ispirazione di Lenin hanno consentito all’ecologia e alla conservazione della natura di sperimentare in URSS un periodo di progressi e di risultati straordinari, all’avanguardia a livello mondiale, per tutti gli anni venti. In seguito, il rovesciamento di quella ispirazione, che comincia bruscamente all’inizio degli anni trenta nel quadro delle complessiva stalinizzazione del paese, ha comportato un drammatico arretramento dell’autonomia degli studiosi, l’emarginazione di idee e impostazioni d’avanguardia sul terreno delle relazioni economia-ambiente e una drastica perdita di efficacia delle politiche ambientali. Di qui il disastro ecologico che accompagna nei decenni successivi l’impetuoso ma irrazionale sviluppo industriale dell’URSS staliniana e che prolunga le sue conseguenze fino alla crisi del regime burocratico negli anni Ottanta.
Il movimento per la protezione della natura aveva mosso i primi passi in Russia già prima della guerra, sulla scia dei paesi occidentali più avanzati in questo campo, Stati Uniti e Germania in particolare. Gli studiosi russi avevano avanzato idee d’avanguardia sulla protezione della natura e proposto un piano di parchi naturali, rimasto ovviamente senza seguito. Non c’è dunque da stupirsi se anche fra i conservazionisti prevaleva l’opinione che la Russia avesse bisogno di urgenti e radicali mutamenti politici e sociali. La caduta dello zar fu perciò accolta con favore e nei mesi che seguirono la rivoluzione del febbraio 1917 sorsero nei maggiori centri del paese nuove società geografiche e naturalistiche.
Tuttavia, al momento della presa del potere da parte dei bolscevichi, le simpatie nei loro confronti erano scarse. Osserva Weiner che l’approccio del partito di Lenin nei confronti della conservazione era un’“incognita politica”. In effetti, il partito bolscevico non aveva mai discusso in precedenza e adottato una chiara posizione in materia.
Anche per questo la posizione personale di Lenin assumeva un’importanza decisiva. Benché anch’egli non avesse mai affrontato in modo organico e complessivo i temi dell’ambiente, fra i dirigenti bolscevichi Lenin era uno dei più consapevoli in materia (vedremo più avanti alcuni suoi scritti degli inizi del secolo). In lui la convinzione circa l’urgenza di incrementare le forze produttive del paese si accompagnava a una chiara consapevolezza della necessità di rispettare le leggi naturali. L’obiettivo dell’efficienza nella gestione dell’economia socialista includeva, e non ignorava, l’esigenza di una gestione accorta delle risorse naturali e della loro preservazione e quella del rispetto delle leggi ecologiche, come si può vedere in questo passo tratto dall’indirizzo ai delegati comunisti del Consiglio centrale panrusso dei sindacati dell’aprile 1919: «Per proteggere le fonti delle nostre risorse dobbiamo agire in accordo con le leggi scientifico-tecniche. Per esempio, trattando del rendimento delle nostre foreste, dobbiamo stare attenti che l’industria forestale agisca correttamente. Trattando del petrolio, dobbiamo attrezzarci per prevenire gli sprechi. È necessario insomma sforzarsi di applicare le leggi scientifico-tecniche e un criterio di sfruttamento razionale.»
Questa consapevolezza – e la percezione realistica dell’arretratezza storica della Russia in cui, all’indomani della conquista del potere da parte degli operai, prevalevano le sterminate masse contadine e la gretta burocrazia statale ereditata dallo zarismo – rafforzavano in Lenin la radicata convinzione che la nuova Russia doveva far tesoro della migliore eredità culturale e scientifica della borghesia, per cui era necessario cercare un’intesa con il mondo accademico e con gli “specialisti” borghesi disponibili a collaborare e, più in generale, promuovere con ogni mezzo lo sviluppo delle scienze teoriche e applicate per elevare il livello culturale e quello tecnologico del paese e creare le condizioni per un rapido incremento della produttività.
Guidato da queste convinzioni, nell’aprile del 1918 Lenin concludeva l’accordo con l’Accademia delle scienze: il governo sovietico riconosceva l’autonomia delle istituzioni scientifiche e universitarie in cambio della loro leale collaborazione con il nuovo potere. Con lo stesso spirito, ma forse con la percezione di un’urgenza particolare, lavorava per la collaborazione con gli esponenti delle scienze della natura e dei circoli conservazionisti.
Sono molte le testimonianze di contemporanei che attestano una particolare sensibilità di Lenin per i problemi di protezione della natura. Sappiamo che nelle settimane trascorse a nascondersi dopo “le giornate di luglio” del 1917, egli lesse alcune opere di argomento ecologico. Weiner ricorda anche qualche aneddoto della vita privata di Lenin che testimonia la sua sensibilità naturalistica: la passione giovanile per la pesca e le escursioni lunga il fiume Svijaga presso Simbirsk e, più tardi, sulle alture lungo il Volga a Zhiguli; le escursioni con la moglie Krupskaja sulle Alpi, sui Giura e sui Tatra, durante l’esilio in Europa occidentale; la sua netta preferenza, in materia di tempo libero, per il partito dei “progulisty” (i naturalisti) contro i “kinemasty” (i cinefili). Abitudini conservate, per quanto possibile, anche durante gli anni frenetici del potere.
Ben più importanti sono, naturalmente, le azioni politiche concrete. E qui è significativo il fatto che le prime leggi sovietiche di protezione della natura portano tutte la firma di Lenin, e non certo per un mero fatto burocratico.
Dopo il decreto “sulla terra”, dei primi giorni della rivoluzione, che mise nelle mani dello Stato tutte le risorse naturali, sottraendole allo sfruttamento dei privati e creando le premesse per una loro gestione razionale, due sono i momenti salienti dell’avvio della politica sovietica nel campo dell’ambiente. Ed entrambi portano l’impronta di Lenin.
Il primo, già menzionato, fu l’accordo fra il governo sovietico, nella persona del Commissario del popolo all’istruzione Anatolij Vasilevic Lunaciarskij, e l’Accademia delle scienze, con il quale il potere sovietico riconosceva l’autonomia delle istituzioni accademiche e scientifiche in cambio dell’impegno a una leale collaborazione. Si tenga presente che l’orientamento ideologico dei leader dell’Accademia era tutt’altro che favorevole ai bolscevichi (e alle tendenze socialiste in generale). Ciò nondimeno, l’accordo ridusse la conflittualità e rese possibile una collaborazione che diede nel tempo frutti importantissimi, soprattutto dopo la fine della guerra civile. Come vedremo più avanti, l’ecologia e le scienze naturali in generale beneficeranno in modo particolare di questo quadro favorevole.
Il secondo evento è meno noto. Si tratta dell’incontro del gennaio 1919 fra Lenin e Nikolaj Nikolaevic Podiapolskij, agronomo bolscevico di Astrakan, città nella regione del Volga, incontro che segna il punto di partenza della politica sovietica di tutela della natura. Vale la pena di riferire estesamente l’episodio così come lo racconta Douglas Weiner.
In quei giorni il governo sovietico era impegnato in una battaglia di vita o di morte contro l’armata del generale “bianco” Kolciak che aveva superato gli Urali e minacciava il cuore del territorio “rosso”. Malgrado la difficile situazione, il 16 gennaio Lenin trova il tempo, su sollecitazione di Lunaciarskij, di ricevere al Cremlino Nikolaj Podiapolskij, responsabile del Commissariato del popolo all’istruzione ad Astrakan, giunto a Mosca per perorare due proposte: aprire una università nella sua città e istituire una riserva naturale (zapovednik, in russo) nel delta del Volga (essa sarà in effetti la prima area naturale protetta istituita dal potere sovietico, l’11 aprile 1919).
Racconterà più tardi Podiapolskij che, dopo averlo ascoltato e «dopo avermi fatto qualche domanda sulla situazione militare e politica della regione di Astrakan, Vladimir Ilic diede la sua approvazione a tutte le nostre iniziative e in particolare a quella che riguardava il progetto di zapovednik. Dichiarò che la causa della conservazione era importante non solo per la regione di Astrakan, ma altrettanto per l’intera repubblica, e che egli la considerava una priorità urgente». Lenin propose pertanto a Podiapolskij di elaborare subito un progetto di legge sulla conservazione da applicare a tutto il paese. Costui, già il giorno successivo, dopo aver lavorato freneticamente con l’aiuto di alcuni legali e di alcuni attivisti di Mosca, consegnò il testo per il parere di Lenin e, con sua grande sorpresa, lo ricevette indietro nella giornata stessa corredato dalle osservazioni del capo del governo.
Successivamente il provvedimento venne inviato per l’approvazione definitiva al Commissariato del popolo all’istruzione. Non si trattò di una scelta casuale. Con acuta lungimiranza, Lenin voleva che la responsabilità per la protezione della natura fosse affidata a un organismo senza interessi diretti nello sfruttamento delle risorse naturali per garantirgli il massimo di autonomia e di efficacia nell’espletamento dei suoi scopi istituzionali. «Una scelta molto oculata», osserva Weiner, carica di conseguenze positive. Dopo aver superato vari ostacoli burocratici, sollevati non a caso dai “ministeri” economici, con un ritardo di due anni, il 16 settembre 1921 il decreto “Sulla protezione dei monumenti della natura, i giardini e i parchi”, firmato personalmente da Lenin, divenne legge dello Stato. Punto qualificante: l’attribuzione al Commissariato all’istruzione delle competenze in materia di protezione della natura e della facoltà di istituire parchi nazionali (zapovedniki) in qualsiasi parte del territorio della nazione giudicato di particolare valore ambientale, scientifico o storico-culturale. Nei parchi nazionali, inoltre, veniva proibita ogni attività economica (caccia, pesca, prelievo di uova o di piante, ecc.) non espressamente autorizzata.
Un secondo risultato dell’incontro del gennaio 1919 fu la creazione nella primavera dello stesso anno della Commissione provvisoria per la conservazione, in seguito ribattezzata Comitato scientifico o Comitato statale per la protezione dei monumenti della natura, con alcuni tra i più noti accademici e scienziati russi, come il geografo Anuchin, il mineralogista Fersman, gli zoologi Kots e Ognev, gli ecologi Severtsov, Kozhevnikov e Zhitkov. A capo della Commissione venne posto l’astronomo bolscevico Vagran Tigran Ter-Oganesov. Una delle prime realizzazioni di questo organismo fu l’istituzione del primo parco nazionale della Russia sovietica, l’Ilmenskij zapovednik, nella regione di Miass negli Urali meridionali. Il decreto istitutivo venne firmato da Lenin il 4 maggio 1920.
In conclusione, la presenza e l’intervento di Lenin nell’avvio della politica sovietica di protezione della natura rivestirono un ruolo molto importante se non decisivo. Il punto qualificante degli atti legislativi che si susseguirono fra il ’19 e il ’21 fu l’attribuzione al Commissariato del popolo all’istruzione (Narkompros) delle competenze non solo della gestione dei parchi nazionali ma dell’intera politica di conservazione. Questa attribuzione fu tutt’altro che scontata e tranquilla. Viceversa, fu fonte di ricorrenti conflitti interburocratici con il Commissariato all’agricoltura (Narkomzem) che a più riprese reclamerà a sé la gestione delle aree protette per poterle sfruttare economicamente. Senza riuscirci, almeno fino al 1934. Poi, come per il resto dell’Unione sovietica, la musica cambierà. «Fortunatamente, il periodo di Lenin aveva lasciato solide fondamenta su cui costruire», è il giudizio finale di Weiner, con cui non si può non consentire.
LENIN, BOGDANOV E L'ECOLOGIA
Anche se il ruolo di Lenin nell’avvio di una avanzata politica sovietica dell’ambiente è ormai, dopo le ricerche di Weiner, un fatto storicamente accertato, non è mancato chi in anni recenti ha voluto interpretare in modo affatto diverso non tanto l’opera (che è fuori discussione) quanto la “filosofia” di Lenin in relazione alla ricezione dell’ambientalismo in URSS e più in generale nel marxismo. Si segnalano in questo senso i saggi di due studiosi che hanno la pretesa di definirsi “ecosocialisti”: Juan Martinez-Alier, che non era al corrente dell’opera di Weiner quando ha formulato la sua tesi; e Arran Gare, che invece utilizza in modo a dir poco discutibile, parziale e tendenzioso le ricerche di Weiner.
Juan Martinez-Alier in Ecological Economics, un lavoro del 1987 per altri aspetti originale e pregevole, mette sotto accusa Lenin per la polemica filosofica condotta in Materialismo e empiriocriticismo contro Aleksandr Bogdanov e i “machisti” russi. Egli vede un rapporto di causalità fra la posizione critica di Lenin nei confronti dell’“energetismo” di Wilhelm Ostwald e della sua versione russa e “marxista” di Bogdanov e l’asserita “insensibilità” del marxismo nei riguardi delle problematiche ecologiche e in particolare della dimensione energetico-entropica dei processi produttivi. Arriva ad affermare che, attaccando Bogdanov, che aveva suggerito una connessione fra disponibilità di energia e forze produttive, Lenin si sarebbe spinto «quasi a respingere lo stesso concetto di energia». La critica di Lenin a Bogdanov e a Ostwald, inoltre, sarebbe stata una vera «iattura» perché con essa «la nube del sospetto leniniano… si addensò intorno al concetto di energia, e ancor più all’energetica sociale».
Di queste pesanti affermazioni di Martinez-Alier c’è sostanzialmente una sola cosa da dire: sono l’opposto della realtà. Per un verso egli travisa malamente la posizione di Lenin sull’energia e sull’energetismo. Per un altro, il suo giudizio sul valore e il significato di quest’ultima corrente filosofica è fortemente squilibrato. In ogni caso, è storicamente infondato il ruolo che egli attribuisce a questo scritto di Lenin e alle posizioni in esso sostenute. In Materialismo ed empiriocriticismo Lenin non si sogna affatto di negare il concetto di energia; anzi, in via d’ipotesi egli non rifiuta neppure la possibilità di fare dell’energia, invece che degli atomi, il concetto base per l’interpretazione del mondo fisico; per Lenin questo è un problema empirico che va lasciato interamente agli sviluppi della ricerca scientifica. Ciò a cui si oppone è l’interpretazione in chiave idealistica di questa sostituzione, come se la “scomparsa della materia” (ossia la crisi della nozione meccanicistica di materia invalsa fino ad allora nella fisica) comportasse la scomparsa del mondo oggettivo; e come se quello di energia non fosse anch’esso un concetto materialistico. La questione è discussa con chiarezza nel quinto capitolo intitolato “La rivoluzione moderna nelle scienze naturali e l’idealismo filosofico”, dove si esamina l’affermazione di alcuni fisici secondo cui le ultime scoperte della fisica (in particolare la scoperta dell’elettrone e della divisibilità dell’atomo) avrebbero comportato la “scomparsa della materia”. Lenin non ha problemi ad ammettere tale affermazione, se essa riguarda i modelli di interpretazione del mondo fisico. Cosa diversa è attribuire ad essa un valore ontologico per negare la realtà del mondo obiettivo, come fanno invece Mach e Avenarius, più confusamente Ostwald e, più ambiguamente, Bogdanov.
Nel sesto capitolo, “Empiriocriticismo e materialismo storico”, Lenin prende in esame l’energetica sociale, o per dir meglio la revisione bogdanoviana del materialismo storico. Anche qui, la sua critica non è rivolta all’energetica come tale, ma all’applicazione esteriore, pasticciata e confusa della terminologia “energetica” al materialismo storico, ciò che contribuisce a confondere le idee piuttosto che a portare un arricchimento analitico reale.
Partendo dalle tesi di Martinez-Allier, Arran Gare, ha cercato di trovare la chiave di spiegazione storica della vicenda dell’ambientalismo sovietico. Egli collega lo sviluppo dell’ambientalismo a Bogdanov e alle sue idee in campo filosofico (l’energetismo) e sociale (il Proletkult) e stabilisce invece un nesso di continuità fra Lenin e Stalin. Mentre il materialismo e il centralismo di Lenin sono responsabili, per Gare, del modello di socialismo ultra-industrialista e antiecologico prevalso sotto Stalin, all’approccio di Bogdanov viene invece attribuita la paternità di una “via alternativa” la cui sconfitta avrebbe avuto per l’URSS e per il socialismo le ben note conseguenze.
L’esposizione fatta da Gare di alcuni aspetti poco noti del pensiero e dell’opera di Bogdanov è interessante ma non dimostra affatto la sua tesi. Il procedimento di Gare consiste nel sovrapporre alla vicenda storica una lettura ideologica precostituita volta a “dimostrare” una causalità ideale che, per il resto, non è confortata da nessun elemento di fatto. In Gare, l’unica parvenza di un argomento storico è la concomitanza fra la fioritura dell’ecologia e la parallela esistenza del Proletkult, il movimento di “cultura proletaria” ispirato da Bogdanov. Ma è difficile, o meglio impossibile, vedere una qualsiasi affinità, per non dire un rapporto di causalità, fra i due fenomeni.
In breve, le interpretazioni di Juan Martinez-Alier e di Arran Gare non stanno in piedi. Se da un lato travisano completamente il senso della posizione di Lenin, attribuendo invece a quella di Bogdanov un significato che storicamente non ha avuto, dall’altro sono smentite in concreto dalla verifica storica a cui, dopo l’Ottobre 1917, vennero sottoposti tanto gli uomini quanto le idee che furono al centro di quella polemica filosofica.
Il “materialismo” non solo non impedì ma semmai motivò l’impegno di Lenin a favore delle scienze naturali, dell’ecologia e di una politica di conservazione della natura. Il rifiuto dell’“energetismo” filosofico, d’altra parte, non gli impedì di giudicare fondamentale e prioritario per lo sviluppo economico e socialista del paese lo sforzo per l’elettrificazione (sintetizzato anche in uno slogan famoso: “Il socialismo è uguale ai soviet più l’elettrificazione”).
Per altro, il già “bogdanoviano” Lunaciarskij – ma “trotskista” nel 1917 – ebbe dal “materialista” Lenin non solo l’incarico di Commissario del popolo all’istruzione ma, proprio in virtù di quel ruolo, ebbe anche il compito di occuparsi della protezione della natura che Lenin volle, con sguardo lungimirante, sottratta all’influenza dei dicasteri coinvolti direttamente nello sforzo economico. In questo compito delicato Lunaciarskij ricevette da Lenin il massimo appoggio per l’adozione di misure d’avanguardia a favore della conservazione e della ricerca ecologica.
Ancora: nei conflitti ideologici che presero forma nella seconda metà degli anni venti furono i “materialisti dialettici” del gruppo di Deborin coloro che seppero meglio dialogare in modo fecondo con le scienze naturali e con l’ecologia. Viceversa, un motivo tipicamente “bogdanoviano” – la contrapposizione di una pretesa “scienza proletaria” alla “scienza borghese”– divenne all’inizio degli anni trenta il tema portante dei normalizzatori staliniani, protagonisti prima dell’attacco all’ecologia e alla conservazione e, più tardi, dell’assalto alla genetica mendelliana.
In conclusione: le posizioni filosofiche che si scontrarono nel dibattito del primo decennio del secolo sull’empiriocriticismo non solo non offrono una chiave di spiegazione della liquidazione da parte di Stalin, due decenni dopo, dell’ecologia e dell’ambientalismo in URSS, ma neppure gettano una qualsiasi luce sul tema sollevato da Martinez-Alier, ossia le ragioni del “divorzio” intercorso fra il marxismo e l’ecologia. Nello specifico, è del tutto infondata l’individuazione di una responsabilità “filosofica” di Lenin in tal senso. Occorre cercare in tutt’altra direzione.
Al contrario di quanto pretendono Juan Martinez-Alier e Arran Gare, è lecito affermare invece che, non solo Lenin possedeva una chiara percezione dell’esistenza di problemi ecologici, ma la sua posizione politico-filosofica lo predisponeva a comprenderne la rilevanza. Lo si può ricavare da un esame più ampio dei suoi scritti filosofici, esteso ad esempio ai Quaderni filosofici, e soprattutto da alcuni saggi dei primi anni del Novecento, raccolti in volume col titolo La questione agraria e i “critici di Marx”, in cui sono esplicitamente trattati alcuni temi ecologici di rilievo, come il degrado dei suoli ad opera delle tecniche capitalistiche di coltivazione o l’antagonismo fra città e campagna, e dove Lenin ci ha lasciato le sue opinioni sul modo in cui il socialismo avrebbe dovuto affrontare tali questioni.
L’iMMAGINE DELLA NATURA NEL MATERLIALISMO DIALETTICO LENINIANO
Negli appunti sparsi e discontinui dei Quaderni filosofici non possiamo trovare una elaborazione originale e sistematica; possiamo tuttavia rintracciare, nelle sottolineature e nelle osservazioni di assenso o di dissenso annotate da Lenin in margine alle sue letture filosofiche, molti elementi del suo pensiero sulla natura e sul rapporto uomo-natura. Essi non ci offrono nuove scoperte: ci confermano semmai il particolare debito del materialismo dialettico leniniano verso Engels (e verso Feuerbach e Hegel) per ciò che riguarda la concezione dell’uomo come parte del mondo naturale, o quella dei processi spirituali come prodotto della materia organica e non di una Ragione o di uno Spirito disincarnati. Non occorre fare qui un’analisi approfondita di questi materiali. Ci limitiamo a richiamare alcuni passaggi più significativi.
Negli appunti (redatti dopo il 1909) sulle Lezioni sull’essenza della religione di Feuerbach, Lenin riporta numerosi passi del filosofo materialista tedesco in cui è affermato il carattere originario e onnicomprensivo della natura, il suo essere corporea, materiale, fondamento della vita dell’uomo, complesso di forze ed enti sensibili in costante rapporto di interazione. Si veda, ad esempio, questa citazione da Feuerbach dal forte sapore “olistico”, sorta di anticipazione filosofica del punto di vista ecologico: «Ciò che infatti l’uomo chiama finalità della natura non è altro che l’unità del mondo, l’armonia delle cause e degli effetti, la connessione generale in cui esiste e opera ogni cosa della natura».
Osservazioni interessanti sulla natura e la conoscenza umana della stessa intessono gli appunti di lettura (del 1914-15) della Scienza della logica di Hegel. Riassumendo alcuni passaggi della “filosofia dell’essenza”, secondo la sua precipua lettura “materialistica” di Hegel, Lenin fa in realtà la sintesi del proprio punto di vista in termini che meritano di essere qui riferiti perché consentono di apprezzare le affinità esistenti fra la visione filosofica dell’essere propria del materialismo dialettico e la visione della natura propria dell’ecologia scientifica: «Se non sbaglio, c’è molto misticismo e vuota pedanteria in questi ragionamenti di Hegel, ma è geniale l’idea fondamentale: dell’universale, onnilaterale e vivente connessione di tutto con tutto e del rispecchiamento di questa connessione… nei concetti dell’uomo, che devono essere altresì affinati, elaborati, duttili, mobili, relativi, reciprocamente connessi, essere uno nelle opposizioni, per poter abbracciare il mondo. La prosecuzione dell’opera di Hegel e di Marx deve consistere nell’elaborazione dialettica della storia del pensiero umano, della scienza e della tecnica».
Più avanti un passo che riassume il valore e i limiti della conoscenza umana della natura: «L’uomo non può afferrare = rispecchiare = riflettere la natura intera, completamente, nella sua ‘totalità immediata’, ma può solo avvicinarsi eternamente a questo, creando astrazioni, concetti, leggi, un’immagine scientifica del mondo…».
Ma Hegel fornisce a Lenin spunti significativi anche sul rapporto uomo-natura, e in particolare sul ruolo della tecnica in relazione alle leggi di natura. A tal proposito Lenin è estremamente chiaro nel porre le leggi di natura come fondamento e limite dell’attività umana: «Le leggi del mondo esterno, della natura… sono il fondamento dell’attività finalistica umana. Nella sua attività pratica l’uomo ha dinnanzi a sé il mondo oggettivo, dipende da esso, determina per suo tramite la propria attività… Due forme del processo oggettivo: la natura… e l’attività ponentesi un fine. Correlazione di queste due forme. I fini dell’uomo sembrano dapprima estranei (‘altri’) rispetto alla natura. La coscienza dell’uomo, la scienza… rispecchia l’essenza, la sostanza della natura, ma è al tempo stesso un che di esteriore rispetto alla natura (non coincide con essa immediatamente, semplicemente). La tecnica… serve ai fini dell’uomo appunto perché il suo carattere (essenza) consiste nella sua determinazione da parte delle condizioni esterne (leggi della natura)… In realtà i fini dell’uomo sono generati dal mondo oggettivo e lo presuppongono: lo trovano come un dato, come presente. Ma all’uomo sembra che i suoi fini siano fuori del mondo e da esso indipendenti (‘libertà’)».
SUI PROBLEMI ECOLOGICI DELL'AGRICOLTURA CAPITALISTICA
Troviamo invece le prove dell’attenzione precoce di Lenin per i temi ambientali in alcuni saggi degli inizi del Novecento, composti e pubblicati fra il 1901 e il 1907 e successivamente raccolti in volume col titolo La questione agraria e i “critici di Marx”. In questi scritti – occasionati dalle polemiche seguite alla pubblicazione nel 1898 del voluminoso saggio di Karl Kautsky Die Agrarfrage (la questione agraria), che riproponeva e aggiornava autorevolmente le posizioni marxiste in materia – Lenin esamina criticamente le posizioni dei “revisionisti” tedeschi (David, Hertz, ecc.) e dei critici russi di Kautsky (Bulgakov e Cernov). Questi, sulla scia degli economisti borghesi, tendevano a negare lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura e ad attribuire al carattere conservatore delle “forze della natura” e alla cosiddetta “legge della fertilità decrescente della terra” l’arretratezza dell’economia agricola e l’impoverimento dei contadini, cioè ad eludere o a negare le vere cause sociali e storiche di questi fenomeni.
Lenin, in effetti, non si limita a una difesa d’ufficio di Kautsky o della teoria marxista, compito che comunque porta a termine con la ben nota implacabilità, demolendo i critici nel merito e nel metodo e dimostrando ad abundantiam la loro inattendibilità scientifica. Riprendendo spunti e idee della sua opera precedente Lo sviluppo del capitalismo in Russia, egli ripropone proprio alla luce delle novità introdotte dallo sviluppo storico e dall’avanzamento delle scienze naturali, l’intatta validità delle posizioni di Marx e di Engels sulla rendita, sulla penetrazione dei metodi capitalistici nelle campagne, sulle tendenze alla concentrazione della proprietà agraria e alla rovina dei piccoli produttori indipendenti e così via. Su due temi in particolare Lenin difende appassionatamente Kautsky e le posizioni dei “classici”: 1) l’analisi delle conseguenze antiecologiche dei metodi della moderna agricoltura capitalistica, che provocano il depauperamento del suolo, compromettono la salute dei lavoratori e comportano l’inquinamento delle città e dei fiumi; 2) la soluzione socialista di questi problemi, che passa necessariamente per l’eliminazione progressiva dell’antagonismo fra città e campagna da un lato e dall’altro per l’utilizzo di tecniche di coltivazione attente a preservare la fertilità dei suoli (“sostenibili”, diremmo oggi).
Nel quarto dei saggi che compongono il volume – significativamente intitolato L’eliminazione dell’antagonismo fra città e campagna. Questioni particolari sollevate dai “critici” – dopo aver duramente replicato a Cernov e alle accuse da questi rivolte a Kautsky di ignorare i risultati delle più recenti ricerche scientifiche, Lenin ribadisce il punto di vista già espresso negli scritti di Marx e di Engels. Osserva in particolare che l’utilizzo dei fertilizzanti artificiali «sarebbe un palliativo in confronto allo sperpero degli escrementi umani dovuto all’attuale sistema di fognatura delle città… È chiaro che la possibilità di sostituire i concimi naturali con fertilizzanti artificiali e il fatto che questa sostituzione venga (parzialmente) già praticata non intaccano minimamente la verità che è irrazionale sperperare senza utilizzarli i concimi naturali, infettando tra l’altro coi rifiuti i fiumi e l’aria nelle zone suburbane e vicine ai centri industriali… I fertilizzanti artificiali – dice Kautsky … – ‘permettono di far fronte alla diminuzione della fertilità del terreno; ma la necessità di impiegarli in quantità sempre maggiori significa soltanto che nuovi pesi si aggiungono ai molti altri che già gravano sull’agricoltura, pesi che non sono una necessità naturale, ma derivano dai rapporti sociali esistenti’».
Si noti che Lenin difende «la concezione socialista dell’eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna» contro i critici (Bulgacov e Hertz) che l’avevano definita “pura fantasia” e “utopistica”, per motivi fondamentalmente ecologici: «Ma l’aperto riconoscimento della funzione progressiva delle grandi città nella società capitalistica non ci impedisce affatto d’includere nel nostro ideale (e nel nostro programma d’azione…) l’eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna. Non è vero che ciò equivalga a rinunciare ai tesori della scienza e dell’arte. Al contrario: ciò è indispensabile per rendere questi tesori accessibili a tutto il popolo, per eliminare quell’isolamento dalla civiltà di milioni di abitanti della campagna che Marx ha giustamente definito ‘idiotismo della vita rustica’. E oggi che l’energia elettrica può essere trasmessa a grandi distanze, che la tecnica dei trasporti è giunta fino a permettere di trasportare i viaggiatori, e con minori spese (di quelle attuali), a più di 200 verste all’ora [una versta è pari a km 1,07; ndr], non esiste assolutamente nessun ostacolo tecnico a che tutta la popolazione, disseminata in modo più o meno uniforme per tutto il paese, approfitti dei tesori della scienza e dell’arte accumulati in alcuni centri nel corso dei secoli».
«E, se nulla si oppone all’eliminazione dell’antagonismo tra città e campagna (e non si deve certo immaginarla nella forma di un unico atto, ma in quella di tutta una serie di misure), non è certo il solo ‘sentimento estetico’ a richiederla. Nelle grandi città gli uomini sono soffocati, secondo l’espressione di Engels, dal fetore dei loro propri rifiuti [Lenin fa qui riferimento a un passo di Engels ne La questione delle abitazioni, ndr], e tutti coloro che possono fuggono periodicamente dalla città alla ricerca di aria fresca e di acqua pura. Anche l’industria si dissemina per tutto il paese, perché anch’essa ha bisogno di acqua pura. Lo sfruttamento delle cascate, dei canali e dei fiumi per produrre energia elettrica darà nuovo impulso a questa ‘dispersione dell’industria’. Infine, last but not least, l’utilizzazione razionale dei rifiuti della città in generale, e degli escrementi umani in particolare, tanto importanti per l’agricoltura, esige anch’essa la soppressione dell’antagonismo tra città e campagna».
Infine – e chiudiamo con questo l’esame di questi scritti, che in verità presentano molti altri spunti di attualità – meritano di essere riferite alcune osservazioni di portata generale relative al rapporto uomo-natura che Lenin inserisce en passant nella trama del suo ragionamento perché, fra l’altro, smentiscono il luogo comune che accusa il marxismo e i marxisti di disconoscere il posto della natura nei processi produttivi in virtù di un’errata valutazione del lavoro umano come unica forza produttiva. Questo, invece, è proprio l’errore che Lenin, sulla scia di Marx, contesta a Bulgakov che «…scade al livello dell’economia volgare, chiacchierando di sostituzione del lavoro umano alle forze della natura, ecc. Sostituire il lavoro umano alle forze della natura è, generalmente parlando, altrettanto impossibile quanto sostituire i pud agli arsin [la prima è una misura russa di lunghezza, la seconda di peso, ndr]. Nell’industria come nell’agricoltura l’uomo può soltanto utilizzare l’azione, se la conosce, delle forze della natura e rendere più facile a sé stesso questa utilizzazione per mezzo di macchine, attrezzi, ecc.».
Questa osservazione, apparentemente marginale, ci dice in verità due cose importanti: 1) che sul terreno analitico Lenin presta grande attenzione alla dimensione fisica, concreta, dei processi produttivi (che è quella nella quale si manifestano in prima istanza i problemi ecologici, perché questi sono per l’essenziale problemi del ricambio materiale organico fra le società umane e il loro ambiente naturale); 2) che sul terreno filosofico più generale Lenin riconosce nella natura un ordine predeterminato e irriducibile alla volontà umana, un ordine che l’uomo non può pensare di alterare. Si tratta di una posizione, come per altro quelle di Marx e di Engels, che rientra indubbiamente nella tradizione dell’antropocentrismo che convenzionalmente si fa risalire a Francesco Bacone, ma di un antropocentrismo prudente e saggio, consapevole delle relazioni, e delle responsabilità, che connettono le società umane al proprio ambiente naturale.
Si potrebbe osservare a questo punto che la posizione di Lenin che scaturisce dal nostro esame non è particolarmente originale: egli, in fin dei conti, si limita a ribadire concetti e orientamenti già proposti da Marx e da Engels e riproposti da Kautsky. Questo è vero, ma il punto che ci premeva sottolineare qui non era l’originalità di Lenin in relazione all’elaborazione marxista, ma piuttosto il fatto che, ben prima dell’Ottobre 1917, egli aveva assimilato e rielaborato personalmente questi temi così da possedere di questa materia una chiara consapevolezza politico-teorica. Ciò significa, in altre parole, che l’interesse con cui Lenin accolse Podiapolskij al Cremlino ed esaminò le sue idee in materia di protezione della natura, in quelle convulse giornate di guerra civile del gennaio 1919, non fu un fatto casuale e neppure il frutto di una mera sensibilità di indole personale. Quell’interesse nasceva da un’acuta consapevolezza dei problemi da affrontare, che a sua volta aveva una solida base teorica e filosofica. Questa base era il marxismo o, se si vuole, lo specifico “marxismo di Lenin”, alieno tanto da interpretazioni economicistiche quanto da letture idealistiche, rafforzato dalla frequentazione delle medesime “fonti filosofiche” di Marx e di Engels e forse reso più avvertito nei confronti della natura dalla passione per le scienze naturali appresa dal giovane Vladimir sui libri del fratello maggiore Aleksandr.
L’esame storico e teorico qui condotto, ci hanno consentito di delineare la figura, per certi aspetti inattesa, di un dirigente marxista rivoluzionario in possesso di una non comune percezione dei problemi ecologici e delle loro cause, nonché di idee ben precise sul modo di affrontarli e di un raro senso dell’opportunità sui passi concreti da intraprendere, stante il difficile contesto generale, obiettivo e soggettivo, per inserire la conservazione nel disegno della trasformazione socialista. Questo, anche se misconosciuto, è il contributo prezioso che Lenin ha lasciato in un campo in cui allora tutti, non solo il giovane potere sovietico, muovevano i primi passi.
Nella tragedia complessiva dell’involuzione staliniana della rivoluzione sovietica, rientra anche il capitolo della tragedia dell’ecologia sovietica. L’impulso geniale dato da Lenin in questo campo fu non solo soffocato e tradito nella pratica, ma anche pressoché cancellato dalla memoria. È a questo tradimento e a questo oblio, in verità, che dobbiamo imputare, almeno per quello che riguarda la sua causazione ideale, il “divorzio” durato a lungo fra il movimento operaio e l’ambientalismo.
Anche se questo non è il luogo per ricostruire l’intera vicenda dell’ecologia sovietica, è utile riferire qui sommariamente il seguito della sua storia e in particolare il modo in cui lo stalinismo, anche in questo campo, ha rovesciato e negato l’eredità di Lenin.
L’EREDITÀ DI LENIN E LA TRAGEDIA DELL'ECOLOGIA SOVIETICA SOTTO STALIN
Abbiamo già visto il giudizio di Weiner sull’azione di Lenin: «Per fortuna, il periodo di Lenin ha lasciato solide fondamenta sulle quali costruire». I provvedimenti degli anni 1918-1923, per quanto in parte inapplicati, costituirono infatti la base per le significative realizzazioni della seconda metà degli anni venti, quando l’economia sovietica riprese rapidamente slancio. Fu questo il periodo d’oro dell’ecologia e della conservazione in URSS. Vennero creati varie decine di zapovedniki, la cui area totale raggiunse i quattro milioni di ettari nel 1929. Cattedre di ecologia vennero istituite nelle principali università. Nacque un vero e proprio movimento per la conservazione della natura, dotato di larga autonomia dal governo, dal quale riceveva comunque incoraggiamenti ed appoggi attraverso il Commissariato all’istruzione e al suo titolare, Lunaciarskij.
Nel 1924 venne creato dal Commissariato all’istruzione la Società panrussa di conservazione con lo scopo di “promuovere con tutti i mezzi l’attuazione pratica della conservazione… e di risvegliare l’interesse della società”. La protezione della natura divenne parte dei programmi scolastici e vide la luce la rivista Okrana Prirodi (Conservazione della natura) dedicata a questi temi con un’apertura internazionale. Nel 1925 presso il medesimo Commissariato venne istituito il Goskomitet, comitato statale incaricato di sovrintendere e coordinare la politica di protezione e la gestione dei parchi nazionali.
Negli stessi anni si sviluppa il ruolo in questo campo di un’associazione creata nel 1922 sotto l’egida dell’Accademia delle scienze, l’Ufficio centrale per lo studio delle tradizioni locali, vera e propria organizzazione di massa diretta da scienziati, giunta alla fine degli anni venti a contare sessantamila iscritti e più di duemila circoli locali.
Secondo Weiner, ebbe successo in questo periodo il dialogo fra gli esponenti più attenti e aperti del nuovo potere sovietico (oltre a Lenin e i già citati Lunaciarskij e Podiapolskij, vanno ricordati Smidovic e Ter-Oganesov, che ricoprirono a lungo posizioni di vertice in organismi legati alla conservazione), e l’ala avanzata degli ecologi e del movimento conservazionista (Kozhevnikov, Severstov, Shillinger, Alechin, Stanchiskij, Kashkarov, Makarov…). I primi, sulla scia dell’insegnamento di Lenin, giudicavano importante una saggia gestione delle attività produttive e delle risorse naturali ai fini di un’armonica edificazione socialista, e facevano conto per questo sulla collaborazione con gli ambienti scientifici. I secondi, che rappresentavano la giovane generazione di studiosi, molti dei quali prima della guerra avevano avuto modo di viaggiare e studiare all’estero e di partecipare ai dibattiti internazionali, condividevano l’ispirazione modernizzatrice del regime e in materia di protezione della natura non partivano da pregiudizi anti-industriali, presenti forse nella precedente generazione, ma da un approccio scientifico.
Questa collaborazione diede risultati straordinari sia in campo scientifico, sia, come abbiano detto sopra, in campo realizzativo.
Ma questo quadro favorevole cambiò radicalmente tra la fine degli anni venti e la metà degli anni trenta, in coincidenza con l’avvio dei piani quinquennali e la definitiva affermazione del potere di Stalin ai vertici della burocrazia. Erano gli anni terribili dell’industrializzazione “a tappe forzate”, della crisi dei rapporti con le campagne e della collettivizzazione coatta. Sul piano politico furono gli anni dell’espulsione di Trotsky dal paese, della liquidazione di tutte le opposizioni, dell’avvio delle grandi purghe.
Il rapporto dialettico fra il regime e gli studiosi, instaurato da Lenin e garantito da Lunaciarskij, venne meno. Al dibattito relativamente libero fra diverse posizioni scientifiche e filosofiche, che aveva caratterizzato gli anni venti, subentrò la “bolscevizzazione” delle scienze e della cultura, ossia l’obbligo per artisti e studiosi di uniformarsi ai criteri ideologici imposti dall’alto, senza molto rispetto per le regole dell’arte, della ricerca e della verità. Agli ecologi, in particolare, venne chiesto di smetterla di discutere gli obiettivi dei piani quinquennali e di assoggettarsi agli imperativi di crescita fissati dai burocrati dei ministeri economici. Di fronte agli effetti negativi sull’ambiente dello sviluppo industriale accelerato (inquinamento e degrado del territorio, sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, ecc.), gli ecologi avevano infatti reagito denunciando gli obiettivi irrealistici, reclamando attenzione per i limiti naturali e avanzando idee innovative come quella di valutare anticipatamente l’impatto ambientale delle scelte economiche. Ancora nel 1931, nel primo manuale sovietico di ecologia scritto da Danijl Kashkarov, uno stretto collaboratore di Stanchinskij, si poteva leggere un’intelligente difesa dell’ecologia come guida essenziale per una pianificazione razionale dello sviluppo economico socialista.
Ma l’affermarsi della dittatura totalitaria di Stalin al vertice dello Stato e il potere dei suoi scherani nel mondo accademico (nel 1929 Lunaciarckij lasciò la guida del Commissariato all’istruzione) lasciarono pochi spiragli agli ecologi. Fra il 1932 e il 1934, Isai Izrailovic Prezent e Trofim Denisovic Lysenko (che più tardi diventeranno famosi per la persecuzione contro Nicolaj Vavilov a la genetica mendelliana in nome di una improbabile scienza “proletaria”) fecero le prove generali della “normalizzazione” proprio con l’ecologia. I recalcitranti furono rimossi dai loro incarichi, molti arrestati. Sorte che nel 1934 toccò anche a Vladimir Vladimirovic Stanchinskij, in quel momento il più originale teorico russo dell’ecologia e il più tenace difensore della politica di conservazione. Finì così lo straordinario esperimento che aveva visto per tre lustri la feconda collaborazione fra il regime sovietico e un settore di nuova intelligentsija e che aveva prodotto risultati di grande portata il cui significato storico andava oltre la Russia e gli anni venti per investire una delle questioni vitali della nostra epoca.
Col prevalere dello schema staliniano del “socialismo in un paese solo”, finì per prevalere anche un’idea dello sviluppo e del rapporto con la natura di marca grettamente economicistica. I passi in avanti del “socialismo” vennero misurati in base ai milioni di tonnellate di carbone e di acciaio prodotti o alle dimensioni ciclopiche delle realizzazioni industriali. Simbolo del periodo divenne l’Hidroproject, l’ente di Stato incaricato di realizzare in tutto il paese canali, dighe e impianti idroelettrici, che forse favorirono a breve termine la rapidissima trasformazione industriale del paese, ma al prezzo di un’ingente devastazione ambientale.
Alla preoccupazione di una prudente gestione dell’ambiente naturale ispirata a criteri scientifici, subentrò la pretesa di “trasformare la natura” e di “correggerne gli errori millenari”, come suonavano le affermazioni di Stalin. Più grave ancora, l’annullamento di ogni dialettica democratica all’interno della società sovietica lasciò alla burocrazia dominante le mani libere per ogni arbitrio. La stessa normativa ambientale molto avanzata, varata nei primi anni del potere sovietico, finì per restare lettera morta e le istanze della protezione dell’ambiente vennero emarginate e soffocate per almeno un ventennio.
In queste condizioni, la soppressione della proprietà privata della terra e delle risorse naturali, che aveva reso possibili le realizzazioni degli anni venti, non fu sufficiente per impedire lo sfruttamento irrazionale delle risorse e del territorio, la devastazione delle aree vergini, gli effetti nefasti di uno sviluppo economico la cui logica rifletteva le miopi priorità dei gruppi burocratici dominanti a livello centrale e locale. È questo il quadro che produrrà in seguito misfatti come l’inquinamento del Lago Bajkal, la morte del Mare d’Aral, il progetto di invertire il corso dei fiumi siberiani, la catastrofe nucleare di Chernobyl …
È in questi sviluppi politici, non certo nella polemica filosofica fra Lenin e Bogdanov dei primi del Novecento, che vanno cercate le radici reali del disastro ecologico del “socialismo reale”, ossia della perversione dell’idea di socialismo che storicamente porta il nome di “stalinismo”. Anche in questo campo, dunque, Stalin ha rappresentato la negazione, non certo la continuità, dell’eredità di Lenin.