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Elezioni, prossime e future: unire la sinistra radicale o spaccarla in due?
17 Agosto 2022
La caduta del governo Draghi e i tempi strettissimi delle prossime elezioni hanno dato nuovo slancio anche al mercato della sinistra sedicente radicale che presenta, in versione accelerata, lo stucchevole film che vediamo ormai da quasi 15 anni: il film del solito carrozzone strampalato che gira a sinistra.
Fin dai titoli di testa il film presenta come una necessità impellente l’unirsi a sinistra. A corollario tutta una serie di luoghi comuni e frasi fatte di un’avanguardia che, sconfitta dopo sconfitta, ha una coscienza sempre più rasoterra e incapace di innalzarsi al di sopra di semplici slogan:
«Divisi non si va da nessuna parte» (che divisi o uniti questa “compagneria” finisca sempre in braccio ai padroni e ai loro servi non conta né produce riflessione alcuna, tanto più che ancora non si comprende che viene chiamata “unità della sinistra”, quella che nei fatti si rivela sempre come l’unità dei “rossi” col capitale);
«Fare i duri e puri non serve a niente» (trasformando chi non la pensa così, in un gruppo di imbecilli che farebbero politica al solo fine di dimostrare di essere più comunisti degli altri. Così è facile darsi ragione, si saltano le reali motivazioni della differenziazione, ci si mette il saio da finto umile e si scomunica come “settario” chi non si vuole arrendere all’acume geniale di analisi tanto profonde e chirurgiche delle storiche divisioni a sinistra);
«Con lo zero virgola non si conta niente» (come se la storia recente, ma in fondo anche passata, non dimostrasse che pure con oltre il 30% si può contare meno di zero: ha infatti contato qualcosa Tsipras al governo? Per i padroni senz’altro, ma per i lavoratori niente, anzi ha pesato in negativo. E ancora conta qualcosa la Cgil con milioni di iscritti ma coi suoi dirigenti sempre proni ai padroni? Corbyn non ha lasciato con un pugno di mosche i lavoratori che avevano riposto in lui le speranze? La quantità non fa la qualità, che non è pessima ma infima, proprio perché è la seconda che deve produrre la prima, non il contrario, perché il contrario non esiste, è la premessa del ritornello della solita sinistra inconcludente e subalterna).
«Non ci sono alternative», come se il punto non fosse che per avere un’alternativa al carrozzone, bisognerebbe lavorarci, mentre il fatto che ad ogni giro si ripresentino le solite accozzaglie, dimostra non che “non ci sono alternative”, ma che il “carrozzone di sinistra” è proprio l’unica “alternativa” tanto desiderata.
Al momento, per le elezioni, escludendo la compagine rossobruna di Rizzo su cui è meglio calare un velo pietoso, la nuova trovata della vecchia sinistra è Unione Popolare, coalizione che mette assieme Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, Democrazia Atea, alcuni transfughi del M5S radunatisi in Manifesta, eccetera. A guidarla sarà De Magistris, un magistrato borghese, cioè uno sbirro con la toga che già si è distinto a Napoli per la subalternità al sistema e per la politica contraria ai lavoratori, specialmente se in sciopero. Ed è l’unità con De Magistris che ci chiedono i nostri critici.
Non ci stupisce tanto la richiesta, quando viene da intellettuali, giornalisti, filosofi, a volte persino da attori o da gente dello spettacolo, insomma da tutta quella ciurma di commentatori della politica che sono di “sinistra” purché non debbano mai militare in un’organizzazione reale. Costoro, estranei alle lotte e agli scontri tra partiti che sono parte importante della lotta di classe, specie nei lunghi periodi di stagnazione come questo, proprio perché ignorano del tutto la storia dell’estrema sinistra, le sue correnti, i suoi dettagli, i suoi torti e le sue ragioni, sono al limite dell’analfabetismo politico. Non sono avanguardie anche se a volte hanno la pretesa di esserlo, specie se hanno dato alle stampe qualcuna delle loro elucubrazioni mentali a tavolino. Sono le peggiori zavorre delle peggiori retroguardie. È del tutto naturale quindi che invochino come gli ingenui che sono, l’unità a sinistra.
Fa riflettere invece, come al coro dell’unità a sinistra si aggiungano tanti compagni che a sentir loro mangiano pane, falce e martello dalla mattina alla sera. Fa sempre un certo effetto vedere come a ogni giro, siano pronti a immolarsi al borghese di turno. Compagni privi di spina dorsale, senza nerbo, pronti a strisciare senza battere ciglio dietro al nuovo progetto delle burocrazie di sinistra, incapaci di una riflessione autonoma e razionale che non sia il qualunquismo del “meno peggio”. Per costoro, non essere disposti a sdraiarsi a mo’ di zerbino al passaggio di De Magistris, diventa ragione di scomunica e di insulti. Tutte le loro forze, tutte le loro energie, tutta la loro campagna elettorale è improntata a denunciare nel loro astratto furore unitario gli “estremisti di sinistra”, cioè quelli come noi che, non appoggiando l’ex magistrato, rischiano di far fallire il progetto. È già pronto il comunicato post-elettorale che ci incolpa in caso di fiasco.
Ai compagni un po’ più riflessivi che ancora credono nella falce e il martello, vorremmo far notare che l’ “unità della sinistra” è il programma dei comunisti alle prime armi. L’unità è infatti il desiderio primigenio di chiunque si affacci alla politica, come di un qualunque lavoratore che si tesseri al sindacato. È un sentimento sano, che parte dalla voglia istintiva di dare il massimo di forza possibile ad un progetto, ma diventa deleterio se si trasforma nel tempo in una insopportabile litania di vuota retorica. Se viene riproposto come un mantra dopo dieci anni o vent’anni di militanza, significa che si è militato a vuoto, che si è vissuta la militanza come un vegetale, come un chierichetto che segue la sua chiesa. Abbiamo bisogno di compagni con la testa sul collo, capaci di spirito critico, non di seguaci al limite del fanatismo.
Superare l’afflato unitario è in generale difficile, ma dovrebbe essere relativamente facile per dei comunisti che ancora rivendichino la falce e il martello. Sappiamo bene che il grosso della difficoltà è data dallo stalinismo che non solo ha cancellato ragioni e principi della nostra storia, ma ha anche modellato il movimento comunista sulla mediocrità e sul più basso livello di coscienza possibile, tuttavia basta aprire un libro di storia qualunque per riapprendere che i partiti comunisti non sono nati per unire la sinistra, ma per spaccarla in due.
L’origine dei partiti comunisti di tutte le razze, infatti, data 4 agosto 1914, quando la socialdemocrazia tedesca, il custode supremo della II Internazionale, quella che aveva giurato e spergiurato di combattere con tutte le sue forze la guerra mondiale in arrivo, passò armi e bagagli dall’altra parte votando i crediti di guerra al reichstag tedesco, subordinando tutto il movimento operaio tedesco (e quindi a ruota tutto il movimento operaio europeo e mondiale con poche eccezioni) agli interessi della propria borghesia. È in quel momento, quando milioni di operai vengono spediti al macello della prima guerra mondiale imperialista con la complicità della socialdemocrazia, che nella testa di Lenin, di Trotsky, di Rosa Luxemburg e dei pochi che si opposero, comincia a farsi strada l’idea di nuovi partiti comunisti (socialdemocratici era il nome che allora si dava ai partiti sedicenti marxisti, cioè marxisti a parole, sciovinisti nei fatti. I nuovi partiti presero il nome di comunisti proprio per distinguersi e contrapporsi ai vecchi partiti socialdemocratici).
Noi nasciamo in rottura frontale con la sinistra radicale, non solo perché la sinistra radicale di allora aveva tradito, ma perché i comunisti che poi si raduneranno nella III Internazionale giudicarono irrecuperabile alla causa della classe operaia la II, per un vizio congenito del suo DNA. Da allora la sinistra radicale è divisa in due grandi categorie: riformisti socialdemocratici da un lato, comunisti rivoluzionari dall’altro. Questa prima elementare classificazione, non deve far dimenticare che al loro interno questi due gruppi differiscono ancora in innumerevoli correnti e varianti, ma intanto va riconosciuta prima di approfondire ulteriormente il discorso sull’unità.
Riformisti e rivoluzionari sono termini che il dibattito politico e storiografico ha ormai codificato e non è il caso di star lì a modificarli, purché si intenda bene il loro contenuto reale. Se per i rivoluzionari, termine e contenuto, tutto sommato combaciano, non così per i riformisti, il cui termine per designarli è alquanto fuorviante. I riformisti non sono lumachine che vogliono procedere a piccoli passi di contro ai rivoluzionari che vorrebbero arrivare d’un balzo al socialismo. Questo è quello che vuol far passare la storiografia social-liberal-borghese, che è sempre, anche nel migliore dei casi, una storiografia grezza e superficiale. I riformisti non son davvero per le riforme, tanto più che in generale le riforme non arrivano per loro spinta diretta, ma per quella delle masse che loro cavalcano appuntandosi medaglie sul petto. Il loro vero scopo, il loro significato storico, è fare da freno alla classe operaia. Sono la palla al piede del movimento operaio, pronti anche a schierarsi apertamente contro qualora il freno non sia sufficiente a fermarlo. In pressoché tutte le grandi sconfitte storiche del movimento operaio, c’è lo zampino dei riformisti di tutte le specie che si trovavano alla testa, comprese le sconfitte portate dallo stalinismo che è, in soldoni, una variante del riformismo. E se questa inoppugnabile verità storica era vera già allora, quando ancora i riformisti avevano in testa qualche rimasuglio di marxismo assimilato male, figuriamoci oggi che la mala pianta del riformismo non nasce più nemmeno su quel terreno. Le recenti debacle della sinistra mondiale, su tutte quella più vistosa di Syriza in Grecia, dimostrano che quella spaccatura di più di un secolo fa, non è affatto superata dalla Storia, anzi è più attuale che mai.
Il fatto che i riformisti siano una sciagura per la classe operaia, non implica automaticamente che i rivoluzionari non possano collaborare con loro con un fronte unico di lotta o addirittura con un cartello elettorale. Ma la collaborazione, non significa in nessun caso la subordinazione dei rivoluzionari ai riformisti. È per questo che i comunisti veri non possono sostenere Unione Popolare, perché l’unità a sinistra tanto invocata è l’unità dei rivoluzionari dietro ai socialdemocratici. E il compito dei comunisti è opposto: costruire il partito della rivoluzione. E per costruire il partito della rivoluzione, non solo non bisogna subordinarsi ai riformisti, ma bisogna anche capire che compito dei comunisti è distruggere i riformisti (politicamente parlando s’intende), perché non abbiano più alcun peso o influenza sulla classe operaia. Il rosso autentico e vivo, deve spazzare via il rosso patinato e di semplice facciata. Rianimare a ogni giro il solito progetto diversamente ma invariabilmente socialdemocratico della sinistra, non è il nostro compito. È il compito di chi vuole aggiungere un’altra sconfitta a una sequela che appare interminabile.
Una simile unità è tanto più irrazionale quanto più è unidirezionale. È sempre e solo unire tutti dietro il riformista di turno. Il contrario non si dà. Guai a unire la sinistra dietro i rivoluzionari. Se si desse una simile unità sarebbero i riformisti a brigare per la spaccatura, come sempre successo nella storia (nel biennio ungherese del 1918-’19, per esempio, o nella stessa rivoluzione d’Ottobre quando le ultime aquile riformiste di quella storia ruppero perché i “dittatori bolscevichi” volevano a tutti i costi la pace, mentre loro, i sedicenti democratici, volevano proseguire a oltranza la guerra).
Fino a qualche anno fa, l’obiezione dei riformisti all’unità a trazione rivoluzionaria, poggiava sull’idea che toccava ai piccoli gruppi unirsi ai grandi, tanto più che l’impalpabilità dei gruppi trotskisti era motivo di disprezzo e derisione. Al di là del fatto che pur apparendo di buon senso, questo modo di unirsi è comunque completamente sbagliato, ora che la sindrome da zero virgola ha colpito la sinistra radicale tutta, il ragionamento non dovrebbe essere un po’ diverso? Negli ultimi quindici anni è innegabile che tutti i gruppi trotskisti come un po’ tutta l’estrema sinistra si siano alquanto ridimensionati, ma nessuno ha subito il tracollo senza precedenti che han subito Rifondazione e Comunisti italiani per l’insistente collaborazione di classe dei suoi gruppi dirigenti. Noi trotskisti, piccoli eravamo e piccoli suppergiù siamo rimasti. Perché mai, dunque, alla testa dell’unità deve starci chi ha disperso praticamente tutto il patrimonio che aveva? Non sarebbero questi i primi che devono mettersi alla coda, e possibilmente in silenzio, di una eventuale coalizione?
Queste domande sono indubbiamente retoriche perché riformisti e rivoluzionari non si possono mettere assieme sulla base di un ragionamento razionale, sono però indicative di due modi opposti di costruire l’unità. I rivoluzionari la costruiscono sulla qualità e sulla lotta, i riformisti sull’elettoralismo e la quantità, ecco perché è sbagliato pretendere il semplice appoggio del gruppo più piccolo a quello più grande, perché elude l’altro aspetto ancora più irrazionale, quello di una unità che i riformisti costruiscono a prescindere dal merito storico.
La storia di Rifondazione non è solo quella di un fallimento clamoroso, è anche la storia di un’opposizione trotskista che ha denunciato per tempo tutte le giravolte di Bertinotti per svendere il movimento operaio in cambio della poltrona. Perché mai oggi per unire la sinistra si dovrebbe dare più peso ad Acerbo che ha seguito Bertinotti votando tutto l’invotabile che ai trotskisti che non l’hanno fatto? Quando Tsipras tradiva gli operai, quelli che oggi si presentano come nuovi, non andavano in giro a parlare di un’altra Europa per Tsipras? E non erano i trotskisti che invece denunciavano, a ragione, Tsipras come bertinottismo in salsa greca? PaP, cinque anni fa, non si era presentata come nuova riciclando tra i candidati quella Lidia Menapace che venne ribattezzata “Menaguerra” ai tempi della missioni imperialiste in Afghanistan che lei votava? E tutti costoro non si sono trovati a promuovere a Presidente della Repubblica borghese il feroce antiabortista Paolo Maddalena (con penoso ritiro poi di PaP, doppiamente penoso se si pensa che tale ripensamento arrivava poco dopo il ritiro della fiducia ad Angelo D’Orsi, storico amico del PD, prescelto da PaP e altri nella corsa a sindaco di Torino, e oggi ricandidato, evidentemente per meriti pregressi, in Unione Popolare). Perché mai si dovrebbe dare in mano la sinistra a chi ancora oggi cerca di flirtare col M5S, anziché darla ai trotskisti che già cinque anni fa lo smascheravano come movimento reazionario? Si potrebbe continuare a lungo, ma basta e avanza per comprendere che la candidatura di De Magistris è figlia anche di queste concessioni. Chi ha una storia, lunga (Rifondazione) o breve (Pap), tutta lastricata di cedimenti e capitolazioni agli interessi padronali, non avrà problemi a sostenere qualcuno che a Napoli ha governato nel loro interesse.
L’unità a sinistra, per avere qualche speranza di futuro, deve essere guidata da chi ha avuto ragione, non da chi ha avuto torto. È sul torto, anche marcio, che invece la vogliono costruire i riformisti. Non è un caso che di fronte a queste critiche non c’è riformista che non schiumi di rabbia e ci accusi di voler avere a tutti i costi la verità in tasca. Noi non pensiamo di avere la verità in tasca, la verità è sempre qualcosa da ricercare per avvicinarsi con sempre maggior precisione, ma la sua ricerca non può prescindere dai dati di fatto. Ai riformisti la verità dei dati di fatto fa male e a noi no, perché il problema non è cosa abbiamo noi in tasca, ma prendere atto che se i lavoratori se le trovano vuote, è perché i riformisti che oggi vogliono guidarli sono gli stessi che hanno concorso in maniera diretta a svuotargliele.
Se invece di guardare in cagnesco alla sua sinistra, la smania unitaria dei riformisti provasse ad alzare lo sguardo ed osservasse come si muove la nostra controparte naturale, il padronato, vedrebbe come in uno specchio rovesciato tutti i suoi errori. Immaginate infatti la Confindustria frammentata in una decina di partitini. E immaginate ancora che nove di questi, per superare la frammentazione, facciano qualche concessione ai lavoratori guadagnandone il consenso. A quale partito di questi dieci si affiderebbe la Confindustria alle prossime elezioni? La risposta è fin banale, all’unico rimasto saldo e fermo a difendere il suo interesse. Per la sinistra radicale riformista, il movimento operaio deve fare l’opposto, invece di appoggiare i trotskisti che sono i soli che non l’hanno tradito, deve dare fiducia alla sinistra unita per il suo tradimento.
La borghesia non accetta mai come capi quelli predisposti in partenza a compromettersi col movimento operaio. È in questo modo diametralmente opposto di difendere il proprio interesse di classe che possiamo già intravedere la prossima bancarotta di Unione Popolare. Fiasco che avverrà o alle elezioni, se non raggiungerà l’agognato quorum (l’unica cosa che interessi davvero a Rifondazione: riconquistare la poltrona!), o dopo quando la sua parabola ripercorrerà l’identica traiettoria dei riformisti di tutti i tempi. Modello Tsipras insomma, alias modello Corbyn, alias modello Podemos, che è sempre, in fondo, podemos ma non volemos!