Interventi
Classe, partito e consigli (terza e ultima parte)
Una riflessione su processo rivoluzionario e prospettiva comunista
2 Settembre 2021
Pubblichiamo la terza e ultima parte di un corposo testo del compagno Luca Scacchi, di cui trovate nella prima parte la versione in pdf per l'eventuale stampa. La seconda parte si trova qui. Buona lettura!
1917, CONSIGLI E PARTITO
I bolscevichi e i soviet: la continuità di una linea. Nel 1905, come abbiamo visto, i bolscevichi si erano posti l’obbiettivo di un governo rivoluzionario provvisorio, espressione di una dittatura democratica operaia e contadina, frutto di un’azione insurrezionale del partito nel quadro dell’assemblea costituente. Tale impianto non era stato modificato nel confronto del partito dopo la rivoluzione. Nel febbraio/marzo 1917, quando in modo improvviso si scatenò la rivoluzione, questa rimaneva quindi la loro linea di riferimento: la conduzione dell’intervento rivoluzionario rimaneva affidata alle strutture del partito o ai comitati da loro diretti. Come scrisse Šljapnikov, non riteniamo che una struttura non affiliata al partito possa guidare questo movimento semi-spontaneo. Di conseguenza, i bolscevichi non chiamarono alla costituzione dei consigli dei deputati operai: nel manifesto A tutti i cittadini della Russia del 28 febbraio [calendario giuliano, in ritardo di 13 giorni rispetto a quello gregoriano che usiamo attualmente] i Soviet non furono neanche menzionati, mentre invece si chiamò alla pronta costituzione di un governo provvisorioper permettere la nascita di un nuovo ordine repubblicano. Rimaneva cioè pienamente in vigore l’impostazione che vedeva il prologo rivoluzionario nella presa del potere e la costituzione di un nuovo ordine democratico come suo epilogo. Certo, non tutto il partito bolscevico ebbe questa concezione e questa prassi, essendo qualcosa di molto più vivo e articolato di quanto trasmesso da una certa tradizione storica (che purtroppo domina anche in alcuni settori comunisti rivoluzionari). Per esempio, il 1° marzo la sezione di Vyborg (il quartiere operaio della capitale, con Kronstadt una delle principali roccaforti rivoluzionarie del paese) chiese che il soviet di Pietrogrado si dichiarasse governo rivoluzionario provvisorio e preparò un manifesto in cui precisò che fino alla convocazione dell’assemblea costituente, tutto il potere deve esser concentrato nei Consigli degli operai e dei soldati, unico governo rivoluzionario possibile. O ancora, il Comitato di Mosca chiamò alla costituzione dei Consigli già nella notte del 27 febbraio, attivandosi poi per il loro concreto sviluppo insieme agli altri gruppi socialisti della città. Questa era in realtà anche la posizione del piccolo gruppo indipendente che si definiva Mezhraionsty [interdistruttuale], che raccoglieva Trotsky ed i compagni a lui vicino. Queste voci rimasero comunque isolate nel gruppo dirigente bolscevico (solo due componenti del Comitato di Pietrogrado le sostennero). Anzi, quando a marzo Stalin e Kamenev arrivarono dalla Siberia non solo ribadirono questa linea, ma la diluirono ulteriormente ritenendo necessario far esaurire le energie all’attuale governo provvisorio. Gli editoriali della Pravda, sulla base delle risoluzioni del 1906, invitarono quindi alla formazione dei consigli solo come compiti delle strutture locali: come eventuali strumenti, appunto, della loro azione.
Le tesi di aprile. Come tutti sanno, l’arrivo di Lenin a Pietrogrado portò ad una svolta improvvisa e radicale. I suoi contenuti furono enunciati sin dal primo discorso alla Stazione Finlandia (sulla natura socialista della rivoluzione russa), poi le cosiddette Tesi furono lette la sera del 3 aprile a 200 militanti presenti in sede per un’altra riunione. Furono accolte dal gruppo dirigente con sincero stupore e generale disapprovazione, di fatto respinte dal CC e pubblicate a titolo personale sulla Pravda il 20 aprile (Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale). Le tesi si articolavano in dieci punti sottolineando che (1) la guerra, condotta da un governo liberale, si configurava comunque come iniziativa imperialista; (2) era necessario prepararsi subito ad una seconda rivoluzione per dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini; (3) non si doveva appoggiare quindi in alcun modo il governo provvisorio; (4) i consigli erano l'unica forma possibile di governo rivoluzionario e finché fossero stati sotto l'influenza della borghesia occorreva spiegare pazientemente gli errori della loro tattica e sostenere la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai soviet;(5) la Russia doveva divenire una repubblica sovietica, sull’esempio della Comune; (6) era necessario confiscare le grandi proprietà e nazionalizzare le terre (la terra ai contadini); (7) si doveva costruire un'unica banca nazionale sotto il controllo dei soviet; (8) questa non era l’instaurazione del socialismo ma il controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei consigli; (9) era necessario convocare un congresso per approvare le modifiche al programma e cambiare il nome da socialdemocratico a comunista; (10) si doveva prendere l’iniziativa di una nuova internazionale rivoluzionaria.
La doppia rottura di Lenin. Queste tesi segnarono una doppia rottura con la teoria e la tradizione bolscevica.
In primo luogo, assumevano l’obbiettivo di una seconda rivoluzione, archiviando la dittatura democratica e di fatto convergendo con Trotsky. Come abbiamo visto, per Trotsky (e Parvus, che aveva con lui elaborato questa visione tra il 1904 ed il 1906) la dinamica ineguale e combinata dello sviluppo capitalista creava grandi concentrazioni industriali anche in realtà periferiche o economicamente sottosviluppate (come la Russia), per iniziativa di capitali stranieri (imperialismi) ed il sostegno attivo del potere politico (intervento statale). Questa dinamica configurava una particolare struttura sociale, in un paese contadino, con una forte classe operaia organizzata e una borghesia rachitica. Su questo, in realtà, sin dalla fine dell’800 c’era il pieno accordo di Lenin, che appunto assegnava al proletariato il compito di condurre una rivoluzione democratica. Il quadro internazionale in cui Trotsky e Parvus ponevano questa dinamica, però, sottolineava come questi rapporti sociali (in Russia e nel mercato mondiale) rendessero insostenibile una fase democratica e rendessero necessaria una rivoluzione permanente, per evitare il ritorno ad una dittatura reazionaria (che si poneva come condizione per proseguire lo sviluppo capitalista). Lenin, di fronte al primo conflitto mondiale e all’esplicitarsi delle dinamiche imperialiste, aveva quindi compiuto una svolta su queste posizioni e posto con chiarezza l’obbiettivo della trascrescenza socialista della rivoluzione democratica.
In secondo luogo, assumevano la necessità di una discontinuità non solo nella direzione politica ma anche negli apparati del potere, con l’obbiettivo di costruire quindi un nuovo Stato rivoluzionario. Questa riflessione proveniva in realtà da Bucharin, che nel 1915 aveva scritto L'imperialismo e l'accumulazione del capitale. In questo testo era stato sottolineato il nuovo ruolo che lo Stato assumeva nella competizione imperialista, con un intervento diretto nell’organizzazione della produzione e nell’indirizzo dell’economia. Bucharin definì questo passaggio capitalismo di stato, riprendendo il concetto da alcune riflessioni di Engels nell’Anti-During: partendo dalla nazionalizzazione delle ferrovie di Bismarck, in quel testo ottocentesco si era infatti delineata la possibilità che il capitale si concentrasse nelle mani dello Stato, senza per questo cambiare modo di produzione. Bucharin aveva proseguito questa riflessione nel 1916, ritenendo opportuna una messa in discussione della teoria dello Stato allora prevalente nel movimento socialdemocratico (il suo uso diretto per costruire il nuovo modo di produzione, in contrapposizione agli anarchici), riprendendo i ragionamenti di Marx sulla Comune e quindi definendo l’obbiettivo di un diverso sistema di potere. Un esigenza che, da un altro versante, era stata delineata nel 1912 anche da Pannekoek in una serie di articoli in polemica con… Kautsky [L'azione di massa e la rivoluzione, Teoria Marxista e tattica rivoluzionaria, Socialismo e anarchismo]. Lenin aveva contestato ferocemente questa lettura, rifiutando di pubblicare gli articoli di Bucharin e accusandolo di deviazione e anarchismo, salvo poi approfondire questa nuova prospettiva e renderla organica in Stato e rivoluzione (libro annunciato già a marzo del 1917, nella terza lettera dall’estero, come articolo sulla Comune e le distorsioni dello Stato in Kautsky, scritto poi nell’esilio estivo in Finlandia).
In questa doppio frattura con le sue precedenti impostazioni [che lo avvicinarono a Trotsky e chiusero la polemica con Bucharin], Lenin poneva quindi i Consigli al centro della strategia rivoluzionaria, in primo luogo come strumenti della seconda rivoluzione, in secondo luogo come infrastruttura di un diverso potere politico. Allo stesso tempo cioè poneva la conquista dei Consigli come condizione del processo rivoluzionario e quindi assegnava agli stessi Consigli un ruolo preminente nella formazione del nuovo potere sovietico. Il partito non esauriva il suo ruolo, ma doveva relazionarsi dialetticamente con loro e procedere alla conquista del potere attraverso di loro, solo dopo avervi acquisito la maggioranza.
Dissensi. Questa doppia rottura produsse un’aperta resistenza. Come ricordò Bucharin qualche anno dopo, parte del nostro partito, e in nessun modo una piccola parte del nostro partito, ha visto in questa linea quasi un tradimento dell'ideologia marxista. Kamenev sottolineò infatti che la strada per il socialismo non sta nella presa di fabbriche isolate, ma nella conquista dell'apparato centrale del governo e quindi nel suo intervento sulla vita economica. Nogin, invece, espresse l’opinione che i Consigli avrebbero dovuto gradualmente cedere le loro funzioni ai sindacati, ai partiti e agli organi di autogoverno della classe (comitati di fabbrica). Kalinin dichiarò che non era corretto affermare, che i Soviet rappresentavano la sola forma rivoluzionaria di governo: in questo modo si sarebbe accettato il programma menscevico di autogoverno rivoluzionario del 1905. A contrastarla fu in un primo tempo anche Stalin che, con come abbiamo visto, conduceva con Kamenev una linea attendista: nella prima Conferenza nazionale, a fine marzo, aveva persino sostenuto che il governo provvisorio stesse tutto sommato consolidando le conquiste rivoluzionarie e presentato una mozione per avviare l’unificazione con i menscevichi. La discussione sulle Tesi di aprile attraversò il partito per quasi un mese. Alla prima votazione nel comitato di Pietrogrado (12 aprile) furono bocciate 13 a 2 (1 astenuto). Alcuni settori, però appoggiarono con convinzione la nuova linea: in primo luogo le avanguardie di fabbrica a Vyborg (che, come abbiamo visto, ne aveva anticipato punti essenziali), ma anche la giovane leva moscovita (Smirnov, Osinskii, Lomov, Sokolnikov, Muralov, a cui presto si unì Bucharin), che aveva raggiunto le file bolsceviche nella rivoluzione del 1905 e che costruirà negli anni successivi il nucleo della sinistra del partito. Così, alla conferenza di Pietrogrado (19 aprile) le tesi furono approvate con 20 voti contro 6 (9 astensioni) e alla VII Conferenza panrussa (24-29 aprile) guadagnarono la maggioranza, anche se su alcuni punti una maggioranza non particolarmente ampia (la specifica risoluzione sull’obbiettivo socialista della rivoluzione conquistò infatti solo 71 favorevoli su 118, il 60%), mentre sul cambio del nome dei partito Lenin raccolse il suo unico voto. Queste resistenze mostrano non solo quanto era radicata la linea della dittatura democratica, ma anche quanto larga parte del partito facesse fatica ad assumere un rapporto dialettico con la classe, interpretando sé stessi (l’avanguardia organizzata) come l’unico soggetto necessario e sufficiente per condurre il processo rivoluzionario. Un’impostazione, come abbiamo visto, che aveva profonde radici nell’esperienza bolscevica, in quell’ampia parte del partito che si era formato nella polemica con gli economicisti e nella costruzione dei comitati (con le relative tendenze organizzativistiche).
La costruzione dei consigli nel 1917. Le Tesi di aprile si affermarono, in ogni caso, in una stagione segnata da veloci cambiamenti, nella quale i Consigli si erano sviluppati indipendentemente dall’azione bolscevica, non solo come organismi di fronte unico, non solo come strumento di controllo nei confronti del governo provvisorio, ma anche come vere e proprie strutture di contropotere rivoluzionario. Da questo punto di vista, allora, la dinamica di classe anticipò il partito e in qualche modo sospinse l’affermazione di una linea rivoluzionaria tra i bolscevichi. La rivoluzione, infatti, si era innescata il 18 febbraio a partire da uno sciopero delle solite officine Putilov, che si diffuse velocemente (il 22 già erano coinvolti 200mila lavoratori e lavoratrici). In pochi giorni si impose una dinamica insurrezionale, senza un’esplicita direzione e una leadership definita, ma non nel vuoto: il movimento si sviluppò infatti sullo stesso tessuto di relazioni, immaginari e rappresentanze su cui si era mosso nel 1905. Una dinamica che, nel quadro della guerra e sotto la spinta della rivendicazione della pace, si estese rapidamente anche ai reparti militari. Sin dal 24 febbraio furono eletti i primi delegati/e in alcune fabbriche, mentre tra il 23 ed il 25 diversi gruppi socialisti valutarono la costituzione di un soviet. Il passo decisivo, in ogni caso, fu preso il 27 da alcune avanguardie operaie appena rilasciate dal carcere: in corteo si mossero verso la Duma [il consiglio municipale] e con i deputati socialisti presenti si autonominarono comitato esecutivo provvisorio del Consiglio dei deputati operai, pubblicando subito un appello per l’elezione dei delegati. Alla prima seduta, lo stesso giorno, ne erano presenti solo una cinquantina, ma il soviet iniziò lo stesso a strutturarsi. Già il 28 febbraio furono in grado di pubblicare le lzvestija e in quella giornata la maggior parte delle fabbriche elessero i loro delegati/e: la sessione della sera ne raccolse ben 120. Il 1° marzo, il Comitato esecutivo e la Duma di Pietrogrado si accordarono per l’elezione di un governo provvisorio (in mano ai liberali), il 2 la relativa mozione fu approvata dal Soviet con soli 19 contrari, che si dichiarò organo di controllo della rivoluzione democratica vis-à-vis con il governo. I Consigli si diffusero nel corso della primavera, sia nei diversi distretti di Pietrogrado, sia nel paese, sia al fronte. Entro la fine di marzo erano presenti in tutte le principali città, nelle realtà industriali e nei principali acquartieramenti militari. L’ordine numero 1 del Consiglio dei lavoratori e dei Soldati di Pietrogrado aveva infatti stabilito l’elezione di Consigli in tutto l’esercito a livello di compagnia, battaglione e reggimenti (o unità equivalenti), oltre che su ogni nave. I Soviet contadini, invece, si costituirono molto lentamente, spesso su spinta dei soldati, a partire dai centri agricoli più grandi: per la fine di luglio ce ne erano in 52 provincie su 78, ma solo in 317 su 812 distretti e in pochissimi volost [le amministrazioni più piccole]. Il numero preciso di tutti i Soviet non fu mai determinato, ma è stato stimato che a maggio ce ne erano oltre 400, in agosto 600, ad ottobre 900. La prima Conferenza panrussa (29 marzo/3 aprile) raccolse 138 Soviet di soldati e operai, 7 consigli di armata, 13 di basi militati e 26 di unità al fronte. Il primo Congresso panrusso, a maggio, elesse delegati da ogni soviet in ragione della popolazione (2 ogni 25/50mila abitanti; 3 ogni 50/75mila; 4 ogni 75/100mila e così via sino a un massimo di 8): si riunirono un migliaio di delegati da circa 300 soviet locali, 50 regionali, 20 d’armata. Da sottolineare, per l’importanza della città, la dinamica di Mosca. Il Consiglio fu costituito, come abbiamo visto, anche su sollecitazione della struttura bolscevica. Il comitato provvisorio, in ogni caso, raccolse tutti i componenti socialisti della Duma, rappresentanti degli Zemstvo (i distretti) e dei sindacati, i componenti operai nel comitato di guerra dell’industria. Come a Pietrogrado, i delegati/e furono eletti nel corso della giornata del 28 febbraio e i Consigli si riunirono ai primi di marzo: i Consigli, perché diversamente da Pietrogrado ne furono eletti due, uno dei lavoratori e uno dei soldati.
Rappresentanze. Il consiglio di Pietrogrado raggiunse in breve i 1200 componenti e per la metà di marzo si avvicinò ai 3mila. Di questi, circa 2mila erano soldati e solo 8/900 operai, nonostante il numero di lavoratori e lavoratrici della città era almeno tre volte quello dei militari. Questa sproporzione era dovuta al fatto che, mentre nelle fabbriche si eleggeva un delegato ogni mille lavoratori, per l’esercito c’era un delegato ogni reparto (anche compagnie di 100/200 uomini). Anche tra i lavoratori c’erano evidenti disproporzioni: per le stesse ragioni, le grandi fabbriche (oltre 400 dipendenti) raccoglievano l’87% dei lavoratori ma avevano solo 400 delegati/e, mentre le fabbriche più piccole (13% dei dipendenti) ne avevano altrettanti. Una dinamica che non era limitata alla capitale: per esempio nei due Consigli di Mosca, a giugno, c’erano oltre 1700 delegati/e, ma quello degli operai era più piccolo (poco più di 500 delegati/e) e anche lì era favorita la rappresentanza delle piccole realtà (1 delegato/a ogni 500 lavoratori, ma non più di tre da una singola fabbrica). Per rendere operativo il Consiglio di Pietrogrado (visto l’amplissimo numero di delegati/e), entro la fine di aprile furono costruiti due “piccoli soviet”, uno di lavoratori ed uno di soldati, ognuno di circa 300 delegati/e, che iniziarono a svolgere sia sedute congiunte che separate. Il Comitato esecutivo, costruito sulla falsariga di quello del 1905, in breve arrivò a 42 componenti, incluso un presidente (Chkheidze), due vice (Skobelev e Kerensky) oltre che rappresentanti (non votanti) dei sindacati, delle organizzazioni socialiste nella Duma, dei consigli distrettuali e della redazione dell’lzvestija. Visto il numero, per ragioni operative fu creato un Bureau di 7 componenti, autorizzati a prendere decisioni in situazioni d’urgenza (da confermare nella seduta plenaria del Comitato). Nei mesi successivi furono poi aggiunti altri 16 rappresentanti provinciali, il Bureau fu quindi allargato a 24 componenti e si riunì quotidianamente, mentre il comitato esecutivo tre volte a settimana. Come nel 1905, in ogni caso, i e le delegati/e erano eletti in assemblea, per alzata di mano, di fatto con un meccanismo nominale e maggioritario (con forme cioè molto diverse da quelle odierne e nessuna salvaguardia per le minoranze). La componente menscevica nei primi mesi era quella dominante, avendo forti posizioni sia nella Duma, sia nei sindacati sia tra gli eletti nelle fabbriche. Ai primi di marzo fu costituito il gruppo bolscevico, con una quarantina di componenti (2/3 soldati) su 2/3mila delegati/e. Il soviet di Krondstadt fu l’unico a registrare, sin dalla primavera, un’influenza bolscevica, anche se in altre realtà si ebbe una maggior presenza rispetto la capitale. I consigli, comunque, erano quasi ovunque in mano ai socialisti rivoluzionari. Alla prima conferenza Panrussa (marzo), circa la metà dei mille delegati era SR e solo 14 erano bolscevichi; al primo congresso (maggio), su 822 delegati/e votanti, furono registrati 285 SR, 248 menscevichi, 105 bolscevichi e affini, 73 indipendenti e un centinaio di altre piccole organizzazioni.
I Comitati di fabbrica. I soviet territoriali non erano le uniche strutture in cui si erano organizzati lavoratori e lavoratrici. Sin da fine febbraio si diffusero i comitati di fabbrica [fabricno-zavodskie komitety], come e più che nel 1905 visto che con la caduta del regime zarista il Soviet di Pietrogrado introdusse la giornata delle otto ore e istituì una rappresentanza di fabbrica [sovet y starost]. Le attività di queste strutture erano quelle che oggi, dopo l’esperienza del lungo autunno caldo, attribuiamo classicamente ai consigli di fabbrica: le trattative su salari, orari e condizioni di lavoro nello stabilimento; la gestione dei rapporti tra i lavoratori; l’assistenza culturale ed educativa; la rappresentanza più generale degli interessi dei lavoratori nei confronti delle istituzioni giuridiche e sociali. Rispetto ai Soviet la composizione dei comitati di fabbrica era meno stabile, soggetta all’andamento della propria realtà. I Comitati svilupparono presto rivendicazioni e prassi di controllo operaio, il cui obiettivo era la gestione della produzione e quindi l’emarginazione delle direzioni aziendali. Di fatto, in molte realtà intervennero su questioni economiche, amministrative e anche tecniche, talvolta persino rimuovendo capi e ingegneri. Se i padroni chiudevano le fabbriche, spesso i comitati prendevano direttamente il comando dell’impresa: già a maggio una relazione governativa segnalava come i comitati di fabbrica non esitano a impegnarsi direttamente nell’organizzazione delle proprie attività economiche. Proprio la diffusione di questi comitati, oltre che il loro crescente potere nelle fabbriche, marginalizzò le organizzazioni sindacali (al di là di alcuni particolari settori, come le ferrovie). Questo movimento spontaneo, che radicalizzava ampi settori di classe attraverso l’autogoverno delle proprie realtà produttive, sfruttava la disintegrazione del cosiddetto ordine costituito e il contropotere dei soviet, che ne garantiva l’azione. Diversamente dalle direzioni sindacali e dai menscevichi, che spesso tendevano a limitarne i compiti in nome della centralizzazione rivoluzionaria, i bolscevichi ne appoggiarono lo sviluppo, insieme ad anarchici e a settori sindacalisti rivoluzionari: nel quadro delle tesi di aprile, con il nuovo obbiettivo di sostenere e incentivare l’autorganizzazione di classe, la rivendicazione del controllo operaio fu infatti pienamente assunta dal partito. Questa linea fu un elemento non secondario della progressiva conquista di consensi nella classe operaia organizzata: alle elezioni di aprile alle Officine Putilov, su 22 componenti del comitato di fabbrica 6 erano bolscevichi e 7 simpatizzanti; alla prima conferenza di Pietrogrado (fine maggio), una risoluzione sul controllo operaio presentata da Zinoviev fu approvata con 297 favorevoli, 21 contrari e 44 astenuti; nella seconda conferenza della città (ad agosto, nel pieno della repressione contro l’insurrezione di luglio) una simile fu approvata con 213 favorevoli, 26 contrari e 22 astensioni. Anche se bisogna dire che questa dinamica non si verificava ovunque: ad esempio a Mosca nella conferenza cittadina dei comitati di fabbrica (luglio), su 682 delegati/e solo 191 sosterranno la risoluzione bolscevica.
Le giornate di luglio. Come si sa, la rivoluzione conobbe nel corso dell’estate un punto di svolta. Sospinti dal proseguo della guerra (in particolare dalla nuova offensiva lanciata dal ministro della difesa Kerenskij), alcuni settori militari organizzarono una manifestazione di massa che innescò una dinamica insurrezionale. Già nel mese di giugno, a fronte dei preparativi dell’offensiva, si erano sviluppate ampie proteste. Una delle strutture del partito bolscevico (l’organizzazione militare) aveva programmato una dimostrazione armata contro la ripresa della guerra, ma l’iniziativa fu fermata dal Soviet (dovette intervenire lo stesso Lenin per assicurarsene): la dimostrazione si tenne la settimana successiva, sotto l’egida dei Soviet e disarmata, ma si trasformò comunque in una mobilitazione di 400mila persone contro il governo, con slogan per la pace e per il potere ai soviet. Settori anarco-comunisti (legati alla Federazione di Pietrogrado) progettarono quindi un’ulteriore contestazione per i primi di luglio. In quel momento nella Capitale c’erano tre diverse strutture del partito bolscevico, tra loro non proprio coordinate (sempre a proposito dell’immagine di una ferrea centralizzazione del partito, spesso distante dalla realtà): il CC (il massimo organismo dirigente), l’Organizzazione militare panrussa e il Comitato di Pietroburgo. Molti membri di base del partito bolscevico consideravano ormai inevitabile, perfino desiderabile, una rapida insurrezione e l’Organizzazione militare, come ampi settori del Comitato di Pietrogrado, di fatto sostennero l’azione contro il governo provvisorio nonostante gli espliciti pareri contrari del CC, di Lenin, di Trotsky e di tutti i principali dirigenti. Il 3 luglio il Primo reggimento mitraglieri si ammutinò e con il sostegno di diverse altre unità diede il via ad una mobilitazione, che vide progressivamente coinvolti tra i suoi protagonisti ed organizzatori i settori bolscevichi più combattivi. Il corteo alla fine, con oltre 60/70mila partecipanti, assediò il palazzo del Soviet, chiedendo di prendere in mano il potere e interrompere la guerra. Il giorno dopo, nonostante i tentativi della direzione bolscevica di mantenere pacifiche le dimostrazioni, un corteo si trovò sotto il fuoco di cecchini, oltre che cannoneggiato da alcuni reparti cosacchi. In quel contesto alcuni reparti militari (in particolare il primo reggimento mitraglieri che aveva dato il via alle proteste e i marinai di Kronstadt, bolscevichi, nel frattempo arrivati in città) assediarono nuovamente il Soviet: Cernov, il principale esponente SR, uscì per trattare, fu aggredito [si racconta che gli intimarono prendi il potere quando ti viene dato, figlio di un cane]e fu messo in salvo a fatica da Trotsky (nonostante il suo particolare ascendente sui marinai di Kronstadt). In ogni caso, la dirigenza bolscevica si impegnò per mantenere pacifica la dimostrazione. Il 5 luglio, però, il Comitato esecutivo del Soviet e il Distretto militare di Pietrogrado lanciarono un’operazione militare per riprendere il controllo della capitale, diversi dirigenti bolscevichi furono arrestati e Lenin si diede latitante.
Tesi di aprile e tesi di luglio: il ritorno di tentazioni avanguardiste. Il 13 luglio si tenne una conferenza clandestina del CC. Per questa riunione Lenin preparò le cosiddette tesi di luglio. Queste nuove tesi si discostavano alquanto da quelle di aprile, articolandosi in quattro punti: (1) la controrivoluzione si è consolidata e impadronita del potere dello Stato, quindi ci si trova di fronte ad una dittatura militare mascherata da istituzioni democratiche; (2) i menscevichi e socialrivoluzionari hanno scelto, per paura della rivoluzione, di essere le foglie di fico della controrivoluzione; (3) la parola d’ordine sul potere ai soviet, che delineava un possibile sviluppo pacifico della rivoluzione, non sarebbe più possibile, perché la democrazia dei Consigli è stata tradita da menscevichi e socialrivoluzionari; (4) è quindi necessario preparare un’insurrezione armata comunista, l’unica in grado ormai di abbattere la dittatura. Quanto la situazione fosse diversa lo rivelarono i mesi successivi, quando si mosse Kornilov. In ogni caso, le indicazioni di Lenin erano quelle di abbandonare ogni intervento nei Consigli, diventati per lui un semplice strumento della dittatura. Di fronte al pericolo di perdere tutto il terreno conquistato, Lenin sembrò cioè abbandonare non solo le parole d’ordine tattiche delle tesi di aprile, ma anche (e soprattutto, ci viene da aggiungere) tutto il percorso dialettico di costruzione del processo rivoluzionario attraverso l’autorganizzazione di classe e lo sviluppo di nuove strutture di potere. L’iniziativa si concentrò nuovamente solo sul partito, come prima della svolta della primavera: l’obbiettivo era infatti quello di un’insurrezione armata per un governo operaio e dei contadini poveri. Certo, Ordzonikidze riferì in seguito che Lenin aveva pensato di trasferire ai comitati di fabbrica il ruolo di organi insurrezionali, visto che questi (come abbiamo visto) erano più influenzati dalle proposte bolsceviche: nel quadro delle tesi di luglio, però, il loro compito ricorda più quello che Lenin stesso attribuiva ai Consigli nel 1906 (semplici strumenti dell’azione insurrezionale del partito) rispetto a quelli tratteggiati ad aprile (organi di organizzazione della classe e sviluppo del nuovo potere transitorio).
La reazione del partito alle tesi di luglio. Diversamente da aprile, il partito non si fece convincere. Non tanto per la resistenza del suo gruppo dirigente (che pure, come ad aprile, ci fu), quanto per le indicazioni che provenivano dal suo corpo, impegnato in prima fila a Vyborg e nelle altre realtà. Alla riunione del CC del 13 luglio, infatti, il documento di Lenin fu respinto con 10 voti contrari su 15 [secondo Rabinowitch, 2004, tra i più determinati oppositori, oltre a Zinovev che mandò un intervento scritto, si segnalarono Nogin, Rykov e Volodarsky, un interdistrettuale in quel periodo tra i principali agitatori alla Putilov; tra i più accesi sostenitori Sverdlov e Molotov]. La risoluzione approvata da quel CC, infatti, non riconosceva il pieno asservimento alla controrivoluzione del governo provvisorio, non rinnegava la parola d’ordine su tutto il potere ai soviet, ma anzi additava la necessità di trasferire subito il potere ai Consigli, i quali avrebbero dovuto compiere passi decisivi per finire la guerra, porre termine ai compromessi con la borghesia, distribuire la terra, stabilire il controllo operaio e distruggere la reazione [i principali temi su cui nelle fabbriche e nell’esercito era cresciuto il consenso bolscevico]. Lenin reagì a questa decisione con collera e allarme, scrivendo Sulle parole d’ordine: un articolo in cui denunciava l’incapacità dei partiti di avanguardia di comprendere la nuova situazione a fronte di una svolta repentina,ripetendo parole d’ordine giuste fino a ieri ma che oggi hanno perso significato. Lenin, quindi, ribadiva che oramai il potere era nelle mani dei Cavignac [l’organizzatore della sanguinosa repressione del giugno 1848 a Parigi], i soviet avevano fallito e un nuovo ciclo doveva partire senza le vecchie classi, i vecchi partiti, i vecchi soviet.
Il dibattito nel partito si svolse nel corso del mese di luglio, al VI congresso (a fine mese, con oltre 150 delegati/e, in assenza di Lenin, Trotsky e diversi dirigenti in prigione o in clandestinità). Stalin si collocò nell’alveo di Lenin, prima con prudenza e poi più nettamente, tenendo la relazione congressuale sulla situazione politica. Stalin, infatti, sostenne che i Consigli in realtà lavoravano silenziosamente con la borghesia, e impegnarvici significava mettersi nelle mani del nemico; per questo si doveva condurre l’insurrezione e in caso di vittoria affidare il potere ad un governo operaio sostenuto dai contadini poveri. Una volta conquistato il potere, infatti, avremmo saputo come organizzarlo(ribadendo quindi proprio la vecchia impostazione sulla conquista del potere come prologo al processo rivoluzionario). Poco prima della relazione, comunque, l’articolo di Lenin sulle parole d’ordine fu stampato dai marinai di Kronstadt e distribuito ai delegati/e. Stalin presentò quindi un documento in 10 punti, forse scritto da Lenin, che ne richiamava gli elementi principali [il potere è nelle mani di una cricca controrivoluzionaria, sostenuta degli alti comandi dell’esercito; l’ottavo punto in particolare sosteneva che i soviet erano un fallimento, il progresso pacifico della rivoluzione impossibile e la presa del potere doveva avvenire alla prima occasione]. Tra gli interventi che lo sostennero si segnalarono Molotov (noi non possiamo combattere a favore dei soviet che hanno tradito il proletariato), Sokolnikov (io non so in quale manuale di istruzioni marxista è scritto che solo i soviet sono organi rivoluzionari, i soviet hanno cessato di esser rivoluzionari quando i cannoni si sono mossi contro la classe operaia), Smilga (il potere si trova nelle mani di una cricca militare, occorre abbattere il governo esistente), Bubnov (i soviet ora sono privi di potere, bisogna cancellare quella parola d’ordine). Alla conferenza di Pietrogrado, però, i 18 emendamenti presentati da Molotov furono tutti bocciati (ed il documento finale, che ricalcava quello del CC, approvato con 28 voti a favore, 3 contrari e 28 astenuti). Al congresso, contro le tesi di luglio intervennero in particolare Volodarsky (mentre il governo va a destra, soviet e partiti vanno a sinistra, pericoloso isolarsi da essi), Jurenev (che ricordò il consolidamento del partito nei soviet, il rischio isolamento, la necessitò di una radicale riformulazione del punto otto) e alcuni dirigenti moscoviti (che sottolinearono l’importanza di difendere i soviet). Alla fine, 8 interventi su 15 sostennero la necessità di mantenere in vita la linea sul potere ai soviet, mentre Bucharin assunse una posizione intermedia. Per uscire dall’impasse, una commissione elaborò una mozione di compromesso (votata poi a larga maggioranza), in cui si registrava il passaggio ad una dittatura controrivoluzionaria, ma si indicava la necessità di proteggere le organizzazioni di massa e in particolare i soviet dagli attacchi controrivoluzione. Con questa linea, i bolscevichi si assicurarono la maggioranza al soviet di Pietrogrado ai primi di settembre (proprio prima dell’annuncio di Kornilov e la nuova svolta politica), ma già il 7 agosto questo aveva approvato una risoluzione contro gli arresti degli internazionalisti (dimostrando di non esser esattamente uno strumento della controrivoluzione). Inoltre, a fine agosto, il partito bolscevico risultò secondo alle elezioni della Duma della capitale (180mila voti, dietro ai 200mila di SR, davanti i 114mila Democratici e i 23mila menscevichi), verificando un ampio consenso in città. La resistenza contro il colpo di mano reazionario di Kornilov, la contestazione del governo provvisorio e quindi poi la rivoluzione di ottobre furono condotte con un crescente consenso, conquistando la maggioranza nei soviet (secondo il percorso tracciato nelle tesi di aprile) e prendendo il potere attraverso i Consigli (non contro di essi). Anche se, da un certo punto di vista, la svolta di luglio lasciò traccia in Lenin: ad esempio, nella lettera del 13 settembre al CC, preoccupato che i tempi dell’insurrezione si dilazionassero, sottolineò con forza la necessità di cogliere l’occasione, indifferente alla necessità di verificare la maggioranza bolscevica al secondo congresso panrusso dei soviet (arrivando a definire ogni ritardo un’idiozia completa o un tradimento completo). Fu Trotsky, in quell’occasione, ad imporre i tempi, non per una questione formale ma appunto per segnare la legittimità politica dell’insurrezione e prendere il potere non come partito, ma come nuova forma rivoluzionaria dello Stato: i Consigli.
Rivoluzione, classe e partito: nel 1917 il partito bolscevico si sintonizzò sull’obbiettivo di una seconda rottura rivoluzionaria transitoria (cambiando la classica linea bolscevica della dittatura democratica), riconoscendo nel contempo la necessità di sviluppare un potere rivoluzionario diverso dal semplice uso degli apparati dello Stato capitalista (che portavano il segno di quei rapporti di classe e della subordinazione del lavoro). Sviluppò quindi una strategia che, discostandosi dalla sua tradizione, poneva al centro del percorso rivoluzionario non solo il partito, ma anche lo sviluppo di processi di autorganizzazione e protagonismo della classe. Sostenne queste pratiche, non solo come strumenti insurrezionali e di intervento del partito, ma anche come esperienze di controllo operaio sui processi di produzione (vedi i comitati di fabbrica). Sostenne in particolare i Consigli, organi territoriali eletti da lavoratori e lavoratrici nelle proprie aziende, forme spontanee di coordinamento e organizzazione della classe (come abbiamo visto costruitisi caoticamente), appunto perché in queste strutture vi aveva visto una forma di contropotere (di altro-potere) rispetto a quello dello Stato capitalista. Nonostante la diversa propensione di Lenin, tenne questa posizione a luglio e anche a settembre, conquistò quindi il potere con i consigli e fondò una Repubblica Sovietica. In questo percorso riformulò e completò la relazione tra partito e processo rivoluzionario che si era definita alla fine dell’ottocento e nei primi anni del novecento, nella polemica con i riformisti e con gli economicisti, sottolineando il ruolo indispensabile di una dialettica tra partito e classe, mediata dai processi di massa e dalla capacità di autorganizzazione della classe.
L’esperienza sovietica aprì poi un’altra fase ed un altro percorso storico: già nella primavera 1918 ci fu una prima centralizzazione contro il controllo operaio e ritornarono in auge ipotesi di capitalismo di stato, poi segui la guerra civile, l’accerchiamento imperialista, la militarizzazione e il comunismo di guerra, la crisi del marzo 1921 (le rivolte nelle campagne e a Kronstadt), la NEP, il rattrappimento delle democrazia operaia e di quella nel partito, lo sviluppo del termidoro, il tragico regime burocratico staliniano e quindi l’assestamento di uno stato operaio degenerato. Questa però, come si dice, è un’altra storia. Anche se, come abbiamo detto, non possono sfuggire alcune radici di questi processi nella propensione del partito ad autonomizzarsi dalla classe. La sue dinamiche dopo la presa del potere assumono però forme e determinanti particolari, andando ad abbracciare non solo le relazioni tra una classe subalterna e le sue rappresentanze politiche (più o meno di minoranza, spesso di estrema avanguardia), ma tra una classe che a quel punto si è fatta dominante e la gestione del potere (informando quindi il complesso delle relazioni sociali di un paese). Queste dinamiche, come ha sottolineato Trotsky nella Rivoluzione tradita (1936), assumono particolari connotazioni e destini in un paese arretrato e isolato: le forze produttive sono infatti ancora insufficienti e quindi la tendenza all’accumulazione primitiva, nata dal bisogno, si manifesta attraverso tutti i pori dell’economia pianificata; in questo quadro permane una differenziazione sociale, determinata da norme di distribuzione che rimangono di natura borghese e la burocrazia, sfruttando gli antagonismi sociali, diventa così una casta incontrollabile. Non essendo ancora in grado di soddisfare i bisogni elementari della popolazione, l'economia sovietica genera ad ogni passo tendenze alla speculazione e alla frode interessata [...] La povertà e lo stato di incultura delle masse si concretizzano di nuovo sotto la forma minacciosa di un capo armato di un pesante bastone. Congedata e condannata in passato, la burocrazia è divenuta da serva, padrona della società. Divenendolo, si è, socialmente e moralmente, allontanata a tal punto dalle masse da non poter più ammettere nessun controllo sui suoi atti e sui suoi redditi. A queste considerazioni è forse utile affiancarne alcune di Bucharin: al momento del suo passaggio dalla sinistra alla destra del partito infatti, l’esponente bolscevico moscovita riprende alcune preoccupazioni sulla burocratizzazione su cui Lenin stava sviluppando i suoi ultimi contributi (vedi Sulla cooperazione, Riorganizzare l’ispezione operaia e contadina, Meglio meno ma meglio). Ad esempio, in Rivoluzione proletaria e cultura (1923) sottolinea come questi rischi di burocratizzazione potrebbero esser propri di ogni transizione, in quanto la classe operaia in ogni società capitalista (anche quelle avanzate, anzi soprattutto in quelle avanzate) è subordinata non solo dai rapporti di produzione, ma anche nella sua espressione politica e sociale dagli apparati dello Stato. La conquista del potere, pur attraverso organi di autorganizzazione e autogoverno, non è allora detto sia in grado di liberare immediatamente la classe lavoratrice dalle sue abitudini e costrizioni culturali: di conseguenza, a fronte di un proletariato appena emerso dai precedenti rapporti sociali, il partito nella gestione quotidiana potrebbe sviluppare una tendenza burocratica ad autonomizzarsi. Per Bucharin, quindi, il rischio che il partito si possa trasformare addirittura in un ceto indipendente è inscritto in qualunque dinamica rivoluzionaria, non solo nei paesi economicamente arretrati ma anche in quelli avanzati. Qui, aggiungiamo noi, emerge con evidenza la centralità del rapporto tra classe e partito, l’importanza di salvaguardare la democrazia sovietica, le istituzioni e le prassi consiliari, la loro autonomia. Non a caso, ci viene da dire, Trotsky ha sottolineato (in L’agonia del capitalismo e i compiti della IV Internazionale, 1938) che bisogna restituire ai soviet non solo la loro libera forma democratica ma anche il loro contenuto di classe: con questo intendeva la rinascita e lo sviluppo della democrazia sovietica, attraverso la libertà dei sindacati e dei comitati di fabbrica, la libertà di riunione e di stampa, la legalizzazione dei partiti sovietici (decisi attraverso il libero suffragio dagli stessi operai e contadini), ma anche una revisione dell’economia pianificata dall’alto in basso, tenendo presenti gli interessi dei produttori e dei consumatori, in cui i comitati di fabbrica debbono riprendere il diritto di controllo sulla produzione. In conclusione, allora, vogliamo segnalare che forse non è un caso che i due dirigenti rivoluzionari che hanno sottolineato il rischio una degenerazione burocratica siano gli stessi a cui si devono le principali elaborazioni che hanno determinato la rottura leniniana dell’aprile 1917. Anche se poi questi dirigenti conobbero percorsi ben diversi: Trotsky sviluppando coerentemente l’opposizione alla deriva burocratica sovietica, Bucharin accompagnandola nella sua tragica parabola per poi finirvi travolto in prima persona.
Quello che volevamo sottolineare, in ogni caso, è che proprio l’esperienza bolscevica indica come il processo rivoluzionario necessiti di un equilibrio attento tra il partito (il progetto transitorio socialista) e la classe (la sua organizzazione democratica). Da allora è passato un secolo, segnato dalle difficoltà dei processi rivoluzionari nei paesi a capitalismo avanzato, lo sviluppo di fascismi e capitalismi di stato, la degenerazione stalinista, la seconda guerra mondiale e il lungo dominio americano, la costruzione del blocco sovietico e la sua capacità di controllare gli ulteriori processi rivoluzionari, l’egemonia riformista e stalinista sul movimento operaio, la guerra fredda e le guerre di indipendenza nazionale, il lungo ciclo espansivo dei trenta gloriosi e l’ondata della contestazione, la crisi degli anni settanta e il rilancio delle globalizzazione, il crollo dell’URSS, la stagione del Washington consensus, lo sviluppo prorompente del capitalismo in Cina senza soluzione di continuità con la Repubblica popolare, l’emersione sempre più evidente del surriscaldamento globale, l’esplosione della Grande Crisi del 2008 e lo sviluppo nel suo quadro di una nuova stagione di accesa competizione tra i principali poli capitalisti. In questo secolo si sono cioè modificate più volte le forme di organizzazione e regolazione della produzione, la configurazione del mercato mondiale, la strutturazione internazionale di capitale e lavoro, le dinamiche della lotta di classe. Tutto questo è cambiato più volte ed è ancora soggetto a tendenze e controtendenze che muteranno l’organizzazione della classe, la sua coscienza politica e l’evoluzione dei movimenti di massa. Quello che non è cambiato sono i rapporti sociali che si strutturano nella produzione e, quindi, la dinamica di fondo delle relazioni tra le classi principali (capitale, lavoro e ceti intermedi). Non è cambiata quindi la necessità di organizzare un progetto politico transitorio, mentre si sono evidenziati proprio in questo tragico secolo i rischi e le conseguenze di una certa concezione e una determinata prassi del partito. Soprattutto, si rinnova in ogni nuova stagione il problema di come sostenere i processi di organizzazione e di autorganizzazione della classe, una classe sempre più disarticolata in diverse formazioni sociali e differenti identità, e di come dialettizzarli con l’iniziativa rivoluzionaria del partito. Classe, partito e consigli non sono allora un punto di arrivo, ma il punto di partenza su cui provare ad articolare un percorso rivoluzionario per l’oggi e per il domani.