Prima pagina
Fedez e il Primo maggio
Quando i diritti civili non incontrano la lotta di classe
8 Maggio 2021
Il Primo maggio di quest’anno, nonostante la pandemia, è stato un importante momento di lotta, di mobilitazione e di confronto che ha visto scendere in piazza diverse migliaia di lavorator* unit* nella lotta in barba a differenze di etnia, di genere e di appartenenza politica e sindacale. Migliaia di persone scese in piazza per difendere i loro diritti, mettere in luce le contraddizioni dell’attuale gestione della pandemia, denunciare la colpevole inefficienza di un sistema sanitario martoriato da decenni di tagli, contrastare le manovre antioperaie del governo Draghi e denunciare la connivenza delle direzioni dei sindacati confederali rispetto a tale stato di cose.
Eppure la notizia che da giorni rimbalza su tutti i mezzi di comunicazione e sembra dividere l’arco parlamentare e anche il movimento stesso (LGBTQIA+ e non solo) riguarda il celebre "concertone" del Primo maggio. In particolare riguarda un intervento fatto dal rapper Fedez durante la sua esibizione su quel palco, vergognosamente perimetrato – come è stato notato – dalle insegne di ENI, sponsor dell’evento (a dire il vero, purtroppo, non per la prima volta).
Personalmente non crediamo sia necessario ricostruire qui la dinamica dei fatti (essa è ormai nota a quasi tutt* coloro che leggono i giornali, possiedono una televisione o hanno un profilo social). Non crediamo nemmeno sia necessario riportare il testo dell’intervento (rintracciabile un po’ ovunque anche per iscritto) o analizzarne il contenuto (esso sarebbe tutto sommato pienamente condivisibile). Sarebbe superfluo anche inserirsi all’interno della polemica sul timido ed impacciato tentativo di censura preventiva della RAI nei confronti dell’artista. Che la censura dei mezzi d’informazione esista e che la società borghese ne faccia ampio uso è noto ormai da secoli. Il fatto che molte persone se ne siano accorte soltanto pochi giorni fa può, al massimo, dare inizio ad alcune speculazioni, peraltro già trite, su quanto sia pervasiva l’illusione di libertà che caratterizza la nostra epoca.
Sarebbe abbastanza ridicolo anche dare ulteriore risalto al botta e risposta tra la Lega e il rapper, oppure denunciare l’incoerenza di Fedez sulla base dei testi delle sue canzoni (come fanno in molt* in questi ultimi giorni).
Altrettanto sciocco sarebbe insinuare – come fanno la UIL e alcune forze sedicenti comuniste – che un intervento sui diritti civili, a prescindere dal suo autore, sia “fuori contesto” perché il Primo maggio “si deve parlare solo di lavoro”. A parte che non si può ignorare il fatto che anche la maggioranza della popolazione LGBTQIA+, delle donne, delle minoranze etniche e religiose e delle altre soggettività discriminate da questo sistema rientrano a vario titolo nella classe lavoratrice, e che probabilmente il luogo di lavoro è uno dei luoghi dove più si fanno sentire le discriminazioni e la repressione delle differenze, comunque il Primo maggio – almeno per noi marxist* rivoluzionar* – è una giornata di lotta e di mobilitazione contro il capitalismo. E se – come abbiamo già sostenuto in altre occasioni – il capitalismo sta alla radice di tutte le diverse oppressioni, allora il Primo maggio è anche un’occasione in cui denunciare e lottare contro omo-lesbo-bi-transfobia, sessismo, razzismo, abilismo e ogni altra forma di oppressione. La lotta di classe, l’anticapitalismo e la rivoluzione sociale non sono chiostri riservati ai soli lavoratori (a questo punto il maschile plurale è d’obbligo), ma sono le strade maestre attraverso cui ogni sfruttat* e ogni oppress* può raggiungere finalmente la libertà, la dignità e i diritti di cui è stat* ingiustamente privat* fino a questo momento.
Tornando a quanto avvenuto, non stiamo parlando di un evento sorprendente. In fondo, ciò a cui abbiamo assistito è un copione già noto da oltre un secolo: un borghese rampante (in questo caso esponente di spicco dello star system nazionale) che indossa i panni del filantropo e coglie l’occasione per ergersi in maniera spettacolare a paladino dei “meno fortunati” e delle “minoranze”, guadagnando così nuovi consensi e ulteriore popolarità (operazione perfettamente riuscita, dobbiamo ammettere). Quanto egli creda in ciò che dice o fa non è particolarmente importante.
Molto più importante è analizzare come le sue parole siano state recepite dalla comunità LGBTQIA+ e, in generale, dalla cosiddetta sinistra. Molto più interessante è vedere come il dibattito pubblico sui diritti civili da alcuni giorni giri tutto attorno alle parole del signor Lucia.
Il fatto che un rapper commerciale e personaggio televisivo milionario (nonché testimonial ufficiale di Amazon Prime) venga osannato come fulgido esempio di artista engagé da tutto il variegato mondo del cosiddetto centrosinistra – dal PD a Sinistra Italiana, da Arcigay alla burocrazia CGIL passando per la cosiddetta stampa progressista e per il M5S, sempre più confuso e ambiguo sui diritti civili (tra uscite misogine e machiste di Grillo e posizioni contraddittorie interne con favorevoli e contrari al DDL Zan) – non è altro che l’ennesima dimostrazione della definitiva bancarotta del riformismo, privo ormai di qualsiasi riferimento politico e culturale credibile e completamente incapace di agire, anche solo formalmente, in favore de* sfruttat* e de* oppress* di queste società.
Quel centrosinistra, rappresentato in massima parte dal PD, che ogni giorno agisce contro la nostra classe rendendo sempre più precarie le nostre vite e sbriciolando un pezzo alla volta i nostri diritti in nome del profitto e del dominio della borghesia e delle sue organizzazioni.
Quel centrosinistra che ipocritamente tenta di nascondersi dietro al paravento dei diritti civili, salvo poi mostrare la propria vera natura anche in questo campo. Basti pensare al Decreto Minniti, alla mancata abolizione dei Decreti Salvini (che sono stati anzi potenziati in alcune delle loro funzioni repressive) o, per ritornare al tema principale, al DDL Cirinnà e al DDL Zan.
Due leggi fortemente insufficienti, dei meri atti formali privi di qualsivoglia forza effettiva. Il primo nasce già come compromesso, per espressa volontà dei suoi autori, e subisce poi una lunga serie di manomissioni (anche da parte dei suoi promotori) che rendono molto debole il risultato finale. Il secondo, non ancora approvato, è un testo di legge che si propone di contrastare l’omo-lesbo-bi-transfobia e la misoginia attraverso un quanto mai discutibile inasprimento delle pene in un’ottica che, senza troppe remore, ci sentiamo di definire securitaria. All’interno di un più ampio contesto, caratterizzato da una sempre più diffusa e capillare repressione di stato e di una sempre più intransigente cultura dell’ordine, tale manovra, malgrado i propositi nobili, mostra dei risvolti inquietanti ed esecrabili, in quanto si accompagna ad un inadeguato sistema di prevenzione delle discriminazioni e di formazione sul tema ulteriormente indebolito dal celebrato articolo 4 del DDL che garantisce il ‘pluralismo delle idee’ e la ‘libertà delle scelte’ (ironicamente significa che qualsiasi persona o organizzazione omofoba che non voglia istituire un lager o organizzare un pogrom è libera di continuare ad esporre le proprie posizioni pubblicamente e senza limitazione alcuna). Non possiamo negare che questa legge presenti anche alcuni aspetti positivi, quali, per esempio, il potenziamento dei centri contro le discriminazioni motivate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere, il monitoraggio statistico nazionale delle discriminazioni e della violenza omo-lesbo-bi-transfobica, l’elaborazione di una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere e l’istituzione della giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia in data 17 maggio. Ma essi risultano pur sempre alquanto incerti e l’impianto generale della legge propende in ogni caso verso la semplice punizione dei reati e non verso l’eliminazione del problema (1).
D’altro canto sarebbe impossibile eliminare il problema senza individuarne ed eliminarne la causa, ovvero la criminale e marcescente struttura del capitalismo. Compito che ovviamente neanche * più sincer* de* riformist* sarebbe disposto ad assolvere. Figuriamoci che cosa può essere disposto a fare il gruppo parlamentare del PD.
Ed è questo il centro della questione. La comunità LGBTQIA+ non può continuare a pendere dalle labbra di questo centrosinistra ipocrita, non può continuare a credere nelle promesse e nelle fantomatiche conquiste del gradualismo riformista, non può continuare a fare affidamento sulle celebrità che fanno coming out o che si schierano “dalla parte giusta” (come Fedez), e non può continuare a tacciare chi non concorda con il metodo descritto pocanzi di essere divisiv*, estremista o perennemente scontent*. Continuando lungo questo vicolo cieco, l’unico risultato possibile è il perpetuarsi della nostra condizione di subalternità.
L’unica via praticabile resta il recupero della combattività che caratterizzava questo movimento alle origini, a partire dal recupero e dalla rivendicazione della nostra condizione di esseri “fuorinorma” e, in seguito, con la costruzione di un fronte ampio capace di convogliare tutte quelle forze, soggettività ed esperienze che in questo sistema si sentono sfruttate ed oppresse, scomode ed inascoltate, sole e indifese: lavorator*, migrant*, donne, precar*, persone discriminate sulla base del loro stato fisico o psicologico e ogni altro “dannat*” di questa Terra. Tutto questo deve avvenire chiaramente in un’ottica di rottura anticapitalista, antifascista, femminista, internazionalista e anticlericale.
Ovvero nell’ottica dell’instaurazione del socialismo e della conquista del potere da parte di tutt* coloro che il potere borghese ha oppresso e continua ad opprimere.
(1) Con quanto abbiamo detto riguardo al DDL Zan non intendiamo – come fanno altri soggetti politici – rigettare l’importanza di una legge contro l’omo-lesbo-bi-transfobia. Una legge di questo tipo è assolutamente necessaria, urgente, attesa e voluta dalla comunità LGBTQIA+. Semplicemente questa legge non è il DDL Zan (per quanto quest’ultimo possa rappresentare un minuscolo passo avanti rispetto al nulla esistente) per i motivi già citati.