Teoria

La violenza di genere come debolezza del patriarcato

Limiti del femminismo contemporaneo e prospettive di costruzione di un femminismo di classe alla luce di un fatto di stupro

31 Dicembre 2015

“La violenza di genere come debolezza del patriarcato” è stato l'oggetto del dibattito di una delle giornate della festa del Partito Comunista dei Lavoratori a Firenze. Il tema sullo sfondo che ha orientato le riflessioni delle quattro relatrici è stato un caso di stupro di gruppo avvenuto nel 2008, conosciuto come “lo stupro della Fortezza” (vedi: http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/07/21/stupro-di-gruppo-a-firenze-tutti-assolti-ragazza-giudicata-io-non-violenza/1893590/ ; vedi anche il Testo sentenza assoluzione per stupro di gruppo alla Fortezza da Basso: https://abbattoimuri.wordpress.com/2015/07/23/firenze-testo-sentenza-di-assoluzione-per-stupro-di-gruppo-alla-fortezza-da-basso/), emblematico – in modo quasi grottesco – nei suoi sviluppi mediatici quanto giuridici. Proponiamo di seguito i quattro interventi che hanno cercato di inquadrare, da prospettive diverse, i nodi contemporanei del maschilismo. Il seguente testo rappresenta il quarto intervento.

« Se potessi tornare indietro sapendone le conseguenze non so se sarei comunque andata al centro antiviolenza, da cui è poi partita la segnalazione alla polizia che mi ha chiamato per deporre una testimonianza tre giorni dopo. Ma forse sì, comunque, per ripetere al mondo che la violenza non è mai giustificabile, indipendentemente da quale sia il tuo lavoro, che indumenti porti, quale sia il tuo orientamento sessuale. Che se anche la giustizia con me non funziona prima o poi funzionerà, cambierà, dio santo, certo che cambierà ».

Queste sono le parole della “Ragazza della Fortezza”, pseudonimo usato dalla vittima dello stupro avvenuto nella Fortezza da Basso di Firenze, vittima prima di una violenza carnale, e poi di una sentenza ingiusta che assolve tutti i carnefici.

La ragazza spera, auspica disperatamente che « cambierà [la giustizia], certo che cambierà ». E mi permetto di rielaborare, di esplicitare il messaggio intrinseco a quella speranza: sebbene in questa giustizia non ci credessi, ho denunciato quello che mi è accaduto. Ma l'ho fatto, sembra voler dire, perché l'idea di giustizia da qualche parte c'è, aspetta solo di essere applicata.

Quello che uno stupro è capace di mettere in discussione è, appunto, questo concetto di giustizia, che risponde ad un sistema ben preciso: patriarcale, e borghese. La riflessione che dovrebbe essere portata avanti, e la discussione che andrebbe alimentata è di carattere generale. Sfortunatamente, dopo lo stupro della Fortezza e le piccole mobilitazioni sull'onda della (giustificata) emotività, non è successo nulla: niente è stato messo in discussione. Molte hanno scritto e detto: « Se toccano una, toccano tutte ». In Argentina, dove il movimento femminista sta vivendo un momento d'oro e le donne scendono in piazza a manifestare in cortei che vedono la partecipazione di centinaia di migliaia di persone, si dice, invece: « Se toccano una, ci organizziamo a migliaia ».

Questo passaggio, quel salto di qualità dall'indignazione, dal rifiuto totale di un sistema che giustifica certe sentenze, all'organizzazione contro quello, ma anche per la costruzione di qualcos'altro, non è un argomento secondario, perché per parlare e riflettere su qualunque cosa che riguardi un programma serio per cambiare la società, occorre pensare a come organizzarsi, a come stare uniti insieme di modo da rovesciare lo stato di cose presenti che giustifica, tra l'altro, che una donna violentata non goda di alcun tipo di giustizia.
Non si vuole arrivare forzatamente a includere la violenza di genere (come lo stupro), all'interno della violenza di classe. L'esperienza di migliaia di anni di sottomissione non può essere risolta all'interno della risoluzione del conflitto di classe. Si tratta di capire, però, che il sistema economico in cui viviamo agisce per conto del patriarcato.


LE FORME DEL FEMMINISMO

Il problema principale che ci troviamo ad affrontare, quando si pensa che l'indignazione del momento non basta più, che le risposte devono essere altre, e più efficaci, è che il femminismo italiano e occidentale, per vari motivi, dalla fine degli anni Ottanta in poi non considera più come centrale l'idea di eliminare questa società divisa in classi, basata sullo sfruttamento e sulle disuguaglianze.

Le forme organizzative prevalenti, infatti, quando le ragioni del femminismo non si sono già fatte inglobare all'interno delle logiche del capitale (una su tutte, le quote rosa), sono i collettivi, il cui limite principale non è affatto l'esser piccoli, quanto l'essere teoricamente limitati (il “territorio” assunto a fine dell'azione politica) e soprattutto il portare avanti azioni e pensieri riformisti se non addirittura conservatori, anche se travestiti di seducente ribellismo.
Un esempio su tutti è costituito da quelle femministe organizzate in collettivi che elogiano le esperienze rivoluzionarie straniere, come quella in atto nel Rojava, per poi candidarsi con la Lista Tsipras in Italia. Questa situazione ci dà una immagine chiarissima di come (pur con tutte le differenze, importantissime, dei vari casi) i femminismi in Italia si comportano.

Oltre ai collettivi, qualche anno fa c'è stato il fenomeno “Se non ora, quando?”, che appoggiato dalla macchina mediatica di Repubblica e potendo contare su promotrici di un certo rilievo appartenenti al campo dell'arte e della politica, ha sollevato il problema della rappresentazione delle donne nei mass media accusando in particolare l'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (padrone di tre reti televisive) di aver creato un sistema in cui non contavano la propria formazione e i propri studi, quanto l'apparenza. Proprio per il suo populismo (e anche perché raccontava una parte della verità) questo movimento ha saputo mobilitare un gran numero di persone, soprattutto donne, contrarie a Berlusconi e ad una certa logica delle raccomandazioni. Al di là dell'accusa di moralismo mossa da alcuni settori del femminismo (in parte forse fondata), in effetti SNOQ è riuscito a mobilitare una piazza importante di donne come non si vedeva da moltissimo tempo, senza però ovviamente mettere in discussione nulla del sistema politico ed economico in cui viviamo. L'unica cosa positiva è che per un brevissimo periodo è riuscito a mobilitare donne che comunque, nel mobilitarsi, volevano dire di più: donne contrarie al mondo del lavoro così com'è pensato per loro. Naturalmente, siccome la struttura non contava su altro che sull'emotività di chi ne faceva parte, si è sfaldata rapidamente.


DISTRUGGERE IL CAPITALISMO, BRACCIO ARMATO DEL PATRIARCATO

Alcuni si potranno chiedere cosa c'entra questo discorso con un fatto di stupro. Il fatto è che negli anni Settanta i collettivi nascevano proprio come luogo separato dai partiti; il momento dell'assemblea del collettivo era il luogo in cui le donne prendevano parola per raccontare di se stesse e della società maschilista che le circondava (e che ci circonda ancora adesso), parole che in quei partiti non trovavano spazio e attenzione. Oggi, quasi tutti i collettivi, per le ragioni più diverse, non sono più interlocutori validi per una donna, sono percepiti come lontani, relegati ad una sottocultura che non ha nulla a che fare con la quotidianità che una donna “comune” deve affrontare, e all'interno della quale si scontra con la violenza di tutti i giorni. Ironia della sorte, questo allontanamento dalle interlocutrici ideali avviene proprio nel momento storico in cui tali collettivi si calano nel locale, nel territorio, rivendicando un'appartenenza, una condivisione di quella stessa materialità cui poi non sanno dare risposte di alcun tipo.
Questa esperienza dimostra che o il problema lo si prende da un lato preciso, quello di classe, o si è condannate alla sconfitta. Non abbiamo scelta: non si può distruggere il patriarcato se non distruggendo il suo sistema economico, cioè quello capitalista.

Questo punto non si può sottovalutare in alcun modo. Non si può svicolare da questo concetto, perché dopo otto anni di crisi economica, le donne stanno pagando amaramente il conto della crisi come forse nessun altro soggetto.
È difficile capire con esattezza quanto e come lo stanno scontando, ma sappiamo certamente che il prezzo dei tagli al sociale e ai servizi ricade completamente sulle loro spalle. Sono le prime ad essere licenziate e sono quelle che, se assunte, hanno i lavori più precari; sono i soggetti che devono flessibilizzarsi all'infinito, per poter tenere insieme tutto: famiglia, lavoro, affetti, vita personale e lavorativa. Devono riuscire a conciliare tutto, e ad un prezzo altissimo. I loro salari sono da fame rispetto a quelli maschili, anche se molto spesso sono più istruite degli uomini. Qualche giornale ci mette anche il carico da novanta, ricordandoci che le donne laureate (oltre che ad esser pagate poco) restano zitelle – battuta che farà ridere qualche imbecille, ma che dice una verità ovvia e gravissima: la società ha il terrore delle donne che studiano.


SI SALVI CHI PUÒ

Quando in una vita del genere, con questi ritmi e con questa materialità terrificante, accade uno stupro, cosa può fare la vittima?
Non è secondario il fatto che una volta il femminismo si preoccupava di offrire una risposta reale a questo fatto, una risposta che non finiva con il colloquio presso il centro antiviolenza.
Nei fatti negli ultimi anni non si è “teorizzato” altro che un piano di fuga, una fuga eterna da uomini violenti, famiglie opprimenti, padri assenti, madri conniventi coi padri, e chi più ne ha più ne metta. La cosa grave è che non si tratta nemmeno di una fuga organizzata: è più che altro un “si salvi chi può”, una forma di salvataggio estremo caratterizzato da un forte individualismo che va a braccetto con l'individualismo più becero, permesso e auspicato da questo sistema economico.
La verità, però, è che la fuga non porta ad un'autodeterminazione di alcun tipo, ed è sbagliato pensare che se si indica la fuga, allora la soluzione, cioè l'autodeterminazione della donna come soggetto, è data.
L'autodeterminazione non si costruisce solo in contrapposizione a qualcosa, ma anche per qualcosa – se stesse, innanzitutto. Dato che in questo sistema economico si deve lavorare per vivere, bisogna pensare al fatto che il sistema economico non ti permette di “fuggire” più di tanto, soprattutto in momenti di crisi. Non ci sono mezzi materiali per cambiare casa, lavoro, città in continuazione, e spesso le donne per mancanza di mezzi restano con l'uomo violento, e alla famiglia oppressiva ritornano, anche raggiunta l'età adulta.


IL LAVORO DELLE DONNE

Questo ci dimostra che all'ordine del giorno non ci può essere che il lavoro delle donne: questa è infatti la prima crisi economica che incontra un grado così elevato di femminilizzazione all'interno del processo produttivo; eppure sindacati, partiti, organizzazioni continuano a sottovalutare in maniera gravissima questo dato. Mentre si sottovaluta il fatto che le donne non hanno mai fatto parte della popolazione che offre forza lavoro (disoccupate comprese) come oggi, si fanno largo da tempo le assurde teorie sul reddito di cittadinanza, che nelle loro varie articolazioni godono tutte di una costante: non tenere in conto il conflitto capitale/lavoro. Di fatto, questo implica che il reddito viene inquadrato all'interno di una politica del sociale, e il salario finisce per essere sostituito dall'elemosina dello Stato. Queste teorie senza senso prendono piede mentre le donne vengono licenziate, mentre vengono assunte a patto di non fare figli, e se sono disoccupate, non sono un problema di nessuno – tanto c'è sempre il lavoro domestico, no?


CHE FARE?

Insomma: i collettivi femministi non offrono risposte adatte a questo sistema economico in completa crisi, i sindacati e i partiti borghesi non sono interessati alla questione se non nei termini della rappresentanza... Che fare?
Bisogna prendere atto che occorre davvero ripartire da zero, e che l'unica strada da percorrere è la costruzione di un femminismo che abbia al centro la classe, non come variabile tra tante, ma come punto centrale, e che però non pensi di risolvere tutti i problemi della subalternità di genere nel conflitto tra classi.
Ogni lato della vita ha una sua materialità, ogni “questione” sollevata ha un riferimento presso delle strutture: la maternità e l'aborto sono questioni di salute. I tagli alla sanità sono violenza sulle donne, e non bisogna aspettare nessun 25 novembre per denunciare questa cosa.
La difficoltà di liberarsi dalla violenza sessuale e psicologica è accentuata dalla difficoltà di essere economicamente indipendenti. Organizzare le donne sui posti di lavoro è centrale perché lì, per davvero, si consuma ogni contraddizione di questo sistema, perché solo lì è possibile mettere in pratica progetti di solidarietà reali, in opposizione a qualunque improbabile piano di fuga. La sola via è la solidarietà, ma essa ci può essere solo se c'è coscienza di sé, di quello che si può ottenere. Non bisogna pretendere solo condizioni di lavoro migliori, o la possibilità di essere assunte nonostante il proprio esser donna, ma lottare per l'eliminazione delle condizioni che fanno sì che l'esser donna sia un ostacolo a se stesse.
In quel nonostante c'è la chiave di volta del ragionamento: o si porta avanti una lotta per la costruzione di una società che permetta alle donne di essere libere per davvero (cioè senza dover fuggire, ma potendo autoderminarsi) oppure siamo condannate a reprimere i nostri desideri e le nostre vite per condurre un'esistenza schiava di un sistema che ci condanna alla povertà e alla negazione di noi stesse.

Da sola, nessuna si salva.

Serena Ganzarolli

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