Internazionale
Il modello Putin: dalla normalizzazione politica alla crisi Ucraina
11 Giugno 2015
Si suole considerare la Russia come un paese che ha sofferto la crisi economica mondiale meno degli altri. In realtà, nel 2008 il paese sopravvisse a una violenta depressione, nella quale la caduta della produzione risultò più significativa che nella maggior parte delle economie sviluppate. Tuttavia, già nell'anno seguente cominciò un periodo di crescita, anche se abbastanza limitato. A questa ricomposizione contribuirono le moderate misure keynesiane, destinate a stimolare la domanda. Queste misure, inoltre, furono dettate non solo dalla tendenza del governo ad allontanarsi dalla usuale ortodossia neoliberale, ma anche dal timore di insoddisfazione della popolazione che si manifestò alla fine del 2011. Nelle condizioni in cui si scatenarono manifestazioni di protesta a Mosca e San Pietroburgo, i circoli dirigenti non rischiarono di portare a termine una serie di misure antisociali pianificate anteriormente, che minacciavano di ampliare seriamente la quantità di insoddisfatti.
Come conseguenza di questi stimoli, l'economia russa mostrò nel 2012 risultati relativamente ragionevoli, il che, come qualcosa di straordinario, attirò l'attenzione dell'Europa occidentale, dove si scatenava una crisi finanziaria. Anche il livello di vita e l'occupazione si ripresero abbastanza rapidamente. Una questione diversa è fino a che punto risultarono seri i “danni” causati dalla crisi alla stessa struttura della società e dello Stato. La ricomposizione dell'economia occultò le contraddizioni strutturali, e la relativa tranquillità politica, dopo il declivio delle proteste del 2011-2012, mascherò la modifica radicale nella correlazione delle forze sociali e il crescente potenziale nella società per una esplosione nuova e molto più seria.
Il “dialogo sociale” di Vladimir Putin
Le manifestazioni degli anni 2011 e 2012 si suole leggerle come una protesta della classe media, che è irritata nei confronti del governo autoritario di Vladimir Putin e aspira alla democratizzazione del sistema politico. Tuttavia, la classe media di Mosca e San Pietroburgo, checostituì la base fondamentale protesta, fu esattamente un prodotto della politica di Putin, edificata sullo stimolo al consumo dovuto alla crescita degli introiti del petrolio. La politica tributaria del governo, eccessivamente liberale rispetto alle grandi imprese, e la disposizione dello Stato a chiudere gli occhi di fronte ai cosiddetti “schemi grigi”, attraverso i quali le medie e piccole imprese evadevano il pagamento delle imposte, crearono le condizioni per una certa ridistribuzione del reddito a beneficio della classe media. Come nelle organizzazioni statali, anche nelle corporazioni private crebbe rapidamente la quantità di collaboratori con funzioni indefinite e alte retribuzioni. Sorse uno strato di gerenti, consultori, esperti, rappresentanti di una “classe creativa”, che nel loro momento crearono una domanda di servizi specifici, cominciando dal business del turismo, che crebbe velocemente, e arrivando a progetti culturali e a tutti i tipi di intrattenimento. Prima a Mosca e San Pietroburgo, e dopo in altre grandi città, cominciarono ad aumentare rapidamente i prezzi degli immobili.
Questo, a sua volta, stimolò un “boom” delle costruzioni, che fu accompagnato dalla scarsità sempre più acuta di alloggi nel settore degli edifici di “classe economica”: la schiacciante maggioranza dei nuovi edifici venivano progettati per clienti ricchi, e il vecchio fondo per gli alloggi sovietico veniva eroso e sostituito da alloggi più costosi, per i quali le persone non avevano abbastanza soldi. Anche se la crisi del 2008 portò a una drastica riduzione dell'occupazione e degli introiti della classe media delle capitali1, lo shock non fu continuo né profondo. Durante gli ultimi due anni, questi gruppi recuperarono la loro posizione precedente e altresì la consolidarono. Ancora, la crisi dimostrò che il livello raggiunto e la qualità di vita non venivano garantiti per loro. Inoltre, l'aumento dei prezzi, che proseguì nel 2010, superò chiaramente l'incremento dei salari. Nella classe media, crebbe una particolare tensione sociale, più vincolata a una sfiducia verso il futuro che ai suoi problemi più immediati. L'irritazione sembrava diretta soprattutto contro lo Stato, che spendeva troppo denaro in aiuti ai poveri, programmi sociali, industrializzazione, difesa, ecc, invece di creare le condizioni favorevoli per lo sviluppo di quella “classe creativa”. Anche la situazione rispetto alle spese sociali risultò essere molto contraddittoria. Malgrado la sua visione filantropica, il governo riusciva a destinare sempre più fondi a sostegno di programmi sociali ed elevava così il livello di vita degli strati più poveri della popolazione, dei pensionati, dei medici, dei maestri e degli impiegati statali, che negli anni 90 conducevano una vita di miseria. Tale munificenza si spiegava dagli introiti, che crescevano costantemente, grazie alla vendita di petrolio e altri combustibili. Come risultato, l'aumento delle spese sociali non ridondò per le grandi imprese in una carica tributaria troppo pesante, anche se gli ideologi imprenditoriali, si capisce, affermerebbero il contrario. Il motto e l'ideologia del governo Putin -sia nella sua funzione di presidente che di primo ministro- furono la “stabilità”2. Nel piano politico, il sistema di governo costituito fu spesso considerato una “democrazia dirigista”. Da un lato, erano presenti i segni esterni di un governo formalmente democratico, dalle competenze dei candidati alle elezioni fino ad una effettiva libertà di parola che non influì in nessun modo nell'operato del governo. Gli introiti petroliferi sembravano sufficienti per soddisfare tutti, anche se non nella stessa misura. Un altro conseguimento importante dell'epoca di Putin fu la stabilizzazione dell'elite. Il governo ebbe successo nel mettere fine alla guerra tra clan che lacerò l'oligarchia russa nella decade del 1990. Si celebrò un principio di compromesso coercitivo: lo Stato era disposto a considerare gli interessi di tutti i gruppi, a condizione che questi
rispettassero determinate regole del gioco. Gli oligarchi che non obbedivano a tali regole venivano sottomessi non solo alla repressione da parte del potere, ma anche, il che non è meno importante, all'ostracismo da parte dei loro colleghi di affari. Il disgraziato destino dei milionari Vladimir Gusinski, Mijail Jodorkovski e Boris Berezovski (scomparso nel 2013)- i cui affari comprendevano petrolio, banca, mass media e altri elementi strategici- non fu estraneo a questi cambiamenti. Questi tre imprenditori facevano parte del gruppo delle persone più influenti negli anni del governo di Boris Yeltsin e non vollero rinunciare alla loro posizione di privilegio con il nuovo presidente. Perciò minarono la logica del compromesso generale che radicava alla base del “sistema Putin”. Il risultato dello scontro fu prevedibile: i tre dovettero emigrare e Jodorkovski, inoltre, passò dieci anni in carcere. Nel contesto dell'aumento dei prezzi del petrolio, si incrementarono anche le quotazioni delle compagnie russe nelle borse nazionali e straniere. L'esclusione dalla scena del settore “indisciplinato” della comunità delle grandi imprese rese possibile una trasformazione strutturale del capitalismo russo, che rapidamente passò da una fase oligarchica a una fase corporativa. La personalità dell'imprenditore significava sempre meno, per cui il potenziale dell'organizzazione e le risorse della compagnia giocavano un ruolo sempre più importante. La burocrazia economica spersonalizzata occupò il posto dei coloriti capitalisti mafiosi dell' epoca di Boris Yeltsin. Il ruolo crescente nella formazione di una nuova cultura corporativista lo giocarono le compagnie quasi-statali, dove un gruppo di funzionari catturò i loro organi direttivi. Così, le relazioni della Russia con l'Ucraina e Bielorussia si sottomisero in gran parte agli interessi della compagnia Gazprom, particolarmente interessata ai mercati e alle possibilità di transito attraverso questi paesi. Inoltre, ogni volta che sorgono dei problemi tra
Gazprom e uno o l'altro governo, il conflitto passa a livello internazionale. Questo è legato in egual misura con l'orientamento pro-occidentale promosso dall'Ucraina e con l'orientamento tradizionalmente prorusso della Bielorussia.
Stabilità e crisi
La politica di compromessi portata avanti dal governo di Putin sembrava funzionare in maniera effettiva non solo in un periodo di crescita economica ma anche, fino a un certo limite, negli anni di crisi come il 2008 e 2009. Tuttavia, la crescita dei profitti corporativi e del consumo individuale si ebbe nel contesto di catastrofico deficit di investimenti, usura delle attrezzature, deterioramento dell'infrastruttura dei trasporti, degrado dell'educazione, insufficienza crescente di quadri qualificati nella produzione e crescente divario rispetto all'Occidente. In altre parole, il paese si stava divorando il suo futuro. La scomposizione dell'etica cittadina e la decolletivizzazione della società raggiunsero livelli tali che iniziarono a preoccupare anche coloro i quali detenevano il potere, che non trovarono niente di meglio che cercare di stabilire veicoli sociali artificialmente, orientandosi ai valori tradizionali, agli “appigli spirituali”3 il cui portavoce è la Chiesa Ortodossa ufficiale (e in alcune regioni è l'Islam ufficiale).
E' completamente naturale che, nella ricerca di una strategia di solidarietà, interessato a preservare lo status quo, il governo abbia scelto principalmente una variante conservatrice. Ciò nonostante, questo programma ideologico conservatore, per quanto riguarda la sua realizzazione, cominciò ad acquisire rapidamente tratti apertamente reazionari e arcaici. La Chiesa ortodossa russa e i suoi rappresentanti nelle strutture politiche del governo semplicemente non sanno agire in un altro modo, poiché, a differenza del protestantesimo e la Chiesa cattolica, non ha una tradizione di dialogo attivo e indipendente con la società e si son tenuti sempre all'ombra dello Stato. L'instaurazione degli “appigli spirituali” e i valori conservatori risvegliò la legittima irritazione della classe media, orientata verso un modo di vivere occidentale. Anche nell'ambiente imprenditoriale aumentò l'opposizione. Gli imprenditori cominciarono a lamentarsi della presenza della corruzione ovunque, anche se sino a poco tempo prima questo stato delle cose gli era del tutto conveniente. In cambio della particolare “rendita della corruzione” che ricevevano i funzionari, questi ultimi assicuravano loro un accesso diretto o indiretto al finanziamento statale e chiudevano gli occhi alla sistematica mancanza del pagamento degli oneri tributari -già di per sé bassi secondo i canoni europei- e allo scandaloso rifiuto delle norme sul lavoro, ecologiche, migratorie, sanitarie, ecc. Detto con rigore, la corruzione permetteva che le imprese riducessero radicalmente i loro costi. Ma nelle condizioni di una scandalosa inefficienza della classe imprenditoriale, abituata a un livello di guadagni che superava più volte quello dell'Europa occidentale, gli imprenditori iniziarono ad esigere che lo Stato riducesse loro quei costi connessi con la corruzione, al contempo senza imporre loro gli obblighi che si devono ottemperare in uno Stato propriamente organizzato4.
Tuttavia, per quanto la classe media e le imprese si sentissero offese, non furono loro a dare inizio alle proteste che esplosero nel dicembre del 2011 e si estesero sino alla primavera del 2012. Per il governo, risultò inaspettata la “slealtà” delle popolazioni dell'interno e degli strati più poveri, che fino a quel momento non mostravano un gran attivismo. Di fatto, non lo mostrarono neanche questa volta. Ciò nonostante, la stanchezza nei confronti del regime di Putin, la tensione nervosa causata dal periodo di crisi e l'irritazione verso la corruzione dei funzionari incentivarono una sorta di sciopero elettorale nelle provincie. Nelle elezioni di dicembre 2011, la gente semplicemente non andò in
modo massivo a votare. E il governo cercò di occultare questa totale assenza appellandosi all'alterazione delle cifre. La necessità di trasformare urgentemente l'8% o il 10% di presenza in 65% o il 70% portò a una grande quantità di falsificazioni assurde e ridicole, della quali la più importante fu la notizia diffusa dalla televisione che in una provincia del sud della Russia la presenza ai comizi aveva raggiunto il 146% degli elettori. E' dimostrato che la frode elettorale, in maggior parte, non fu motivata
né dall'intento di aumentare la percentuale dei voto conferiti al partito ufficialista Russia Unita, né per nascondere che effettivamente c'era stato un boicotaggio popolare alle elezioni. Tuttavia , tra coloro i quali votarono, una quantità maggiore del normale lo fece in favore dei partiti dell'opposizione legale, dove si colloca il Partito Comunista. I risultati delle elezioni spinsero la classe media delle grandi città a scendere per strada. Le manifestazioni risultarono inaspettatamente massive e, nei primi momenti, abbastanza aggressive. Il motto “Per elezioni pulite” unì quasi tutti, dalla sinistra sino all'estrema destra, sotto bandiere di diverso colore, in manifestazioni a Mosca e San Pietroburgo, e trasmise ai suoi organizzatori la convinzione che tutta la società avrebbe manifestato nell'immediato contro il governo. Ma in realtà diede solo testimonianza della presenza di manifestanti apartitici, ai quali in maggior parte poco importava sotto quale bandiera marciare. Il motto astratto “Elezioni pulite” e i primi giorni di proteste crearono una buona piattaforma per l'unità politica di gruppi molto diversi, ma quasi subito rimase allo scoperto la sua inconsistenza. In definitiva, le elezioni di dicembre furono a loro modo pulite, si distribuirono i posti tra i partiti con status legale, più o meno in proporzione alle percentuali ricevute.
La “normalizzazione” del 2012
Appena si recuperarono dal primo shock, le autorità trovarono un mezzo effettivo per neutralizzare le proteste nella capitale. L'ideologia di questa campagna antiproteste fu estremamente semplice: contrapporre alla “classe media parassitaria” di Mosca e San Pietroburgo il popolo lavoratore dei centri urbani, presentando il governo e il presidente come difensori della pace sociale che rifiutavano una riforma neoliberale. Sorgeva, ovviamente, una domanda: se lo Stato avrebbe limitato e rallentato le riforme antisociali (nel settore casa, salute, educazione e trasporti, tra i vari settori) e chi le portasse a termine. Ciò nonostante, questa propaganda funzionò: la maggior parte della popolazione del
paese considerò che il potere era un male minore in confronto con i liberali della capitale. Per questo, la campagna dei seguaci di Putin non fu fondata nella pura retorica. Il potere ricorse a una serie di misure populiste/”keynesiane” per stimolare la domanda. Da parte loro, le opinioni dell'ala destra dei liberali e di coloro che patrocinavano i loro gruppi imprenditoriali con le loro azioni e dichiarazioni confermavano i peggiori timori dei cittadini. L'ala sinistra della protesta era disorientata e scissa per via della politica dei suoi leader (principalmente Serguéi Udaltsov, del Fronte di Sinistra, i quali preferirono il blocco con i “leader della protesta” prima di una proposta di reclami sociali e azioni indipendenti5. Il risultato fu catastrofico per l'opposizione, gli elettori delle province, nella primavera del 2012, concorsero alle elezioni presidenziali e votarono per Putin. E le stesse strutture dell'opposizione, dopo aver perso una chiara prospettiva strategica, declinarono e si dissolsero.
Sembrerebbe che il potere, a tempo debito, aveva risolto i suoi problemi. Ma, come accade spesso, il successo non consolidò i suoi lati forti nella stessa misura in cui presentava chiaramente le sue debolezze. Dopo le elezioni, il governo, che aveva adottato misure per stimolare la domanda che si considerarono nel 2012 come una concessione temporanea ai votanti delle provincie, non solo ritornò bruscamente al corso neoliberista, ma lo indurì al massimo. Cominciarono ad alzarsi i prezzi e la disoccupazione. La situazione si aggravò con l'ingresso della Russia nella Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Il passaggio verso una tendenza neoliberista portò l'economia a un ristagno nel 2013 e a una caduta prevista per il 2014. La popolarità di Putin precipitò. I bilanci regionali cominciarono a mostrare un livello “greco” di deficit e indebitamento; inoltre, il governo centrale venne condotto in relazione alle amministrazioni provinciali nello stesso modo in cui fece, per esempio, la troika europea rispetto alla Grecia o alla Spagna. Questo creò una nuova linea di tensione tra il centro e le regioni. Ma la crisi che si stava generando in Russia scoppiò ancor prima in Ucraina.
La crisi Ucraina
Situata tra Russia e Occidente, l'economia ucraina ricevette impulsi critici da entrambi i lati. Cercando di seguire un sostenuto corso neoliberale, i governi ucraini non furono capaci di conseguire un consolidamento delle élite simile a raggiunto in Russia. A causa del costante deficit di risorse, ebbe luogo una disputa ininterrotta tra gruppi oligarchici basati in diverse regioni del paese (con la particolarità che le risorse si ridistribuivano sistematicamente dal sud-est industriale verso l'arretrato occidente agricolo, che costituiva la base elettorale dei partiti di destra). Questa lotta tra oligarchi ha costituito il fondamento e il
contenuto del singolare modello democratico ucraino. Ma il sistema politico ucraino, che non superò la prova della crisi, crollò nell'inverno del 2012-2013.
Il pretesto formale per le rivolte a Kiev fu il rifiuto del presidente centrista Viktor Yanukovich di firmare un accordo di associazione con l'Unione Europea. L'accordo, oltre che una quantità di esigenze neoliberali, prevedeva il completo trasferimento delle attività industriali ucraine al sistema di standard tecnici della UE. Non c'erano i soldi per una riorganizzazione del paese di tale portata, e il tentativo di trasferire questi costi al settore privato significava automaticamente la chiusura o il fallimento di gran parte delle fabbriche. Gli stessi leader imprenditoriali, riconoscendo l'incombente minaccia, intimarono il presidente Yanukovich a non firmare l'accordo. Tuttavia, l'opposizione utilizzò la ritrattazione come pretesto per organizzare proteste di massa, accusando la riluttanza delle autorità ad aprire una “prospettiva europea” per il popolo ucraino. La disposizione iniziale del governo a firmare l'accordo fu sollevata per il fatto che il paese era in bancarotta. L'Occidente prometteva soldi e Kiev
era disposta ad accettare qualsiasi condizione. Yanukovich vacillava, rivolgendosi alternativamente all'Occidente, alla Russia e alla Cina, e allo stesso tempo, gli oppositori che protestavano costruivano barricate, bruciavano copertoni delle automobili nelle strade, lanciavano bombe molotov ai soldati delle forze interne e colpivano ai sostenitori del governo.
La sollevazione ucraina, appoggiata inizialmente, come a Mosca, da una parte importante degli strati medi delle capitali, finì rapidamente sotto il controllo dell'opposizione radicale di destra, che si appoggiava alla bande di strada di diverse organizzazioni fasciste e semifasciste. In questo senso, il Maidan di Kiev (così chiamato per via del nome della piazza centrale della capitale, Maidan Nezalezhnosti, dove avvenirono i fatti6) si distingueva radicalmente dalle proteste in piazza Bolotnaya, di Mosca. Se in questo ultimo caso il controllo ideologico lo presero i liberali, anche se in un senso chiaramente di destra, a Kiev, dal principio, le posizioni dominanti furono quelle dei radicali di destra, anche se l'intelletualità liberale non voleva riconoscerlo.
L'egemonia dell'estrema destra nelle proteste di Kiev fu il risultato naturale degli antefatti della democrazia oligarchica ucraina. A differenza della Russia, dove non esisteva un'opposizione seriamente istituzionalizzata fuori dai partiti della Duma (Parlamento), che erano parte del sistema di una “democrazia dirigista” (e che attuarono contro le proteste massive), in Ucraina si formarono istanze di pluralismo politico reale, ma nel quadro di un sistema oligarchico l'elezione era solo tra centristi e quelli di destra. Peraltro, gli ultimi erano sotto la crescente pressione di varie organizzazioni fasciste e semi-fasciste che erano incoraggiate dal governo di centro di Yanukovich e dal suo Partito delle Regioni7 in qualità di potenziali alternative elettorali all'opposizione nazionalista di destra. La questione non arrivò alle elezioni; il cambio di potere, accompagnato dal crollo di fatto della struttura politica del Partito delle Regioni, portò il paese da un pluralismo politico a una elezione tra la destra e l'estrema destra, che fino a quel momento avevano attuato unite in un blocco. Gli scontri si trasformarono in combattimenti di strada quando gli attivisti di organizzazioni nazionaliste radicali, unite nella coalizione di Pravy Sektor (Settore di Destra), cominciarono a usare le armi. Nel febbraio del 2014, Yanukovich, dopo aver perso definitivamente il controllo della situazione, fuggì da Kiev e lasciò il paese abbandonato alla sua stessa sorte. Il governo non cadde, né tanto meno ci fu una presa del potere. Semplicemente si autoliquidò.
Il nuovo governo dell'Ucraina
Sul piano politico, una coalizione di tre partiti (Baktivshina, UDAR e Svoboda8), formata a Kiev dopo la fuga di Yanukovich, si presentò come l'unione dei radicali neoliberali con i nazionalisti e i fascisti, una formula sino ad allora poco usuale per l'Europa che, tuttavia, può essere un precedente per altri paesi. Il nuovo governo, formato dagli oppositori di prima nelle condizioni di un caos crescente, non trovò niente di meglio
che cercare di consolidare il suo sostegno da parte di piccoli gruppi radicali di destra che avevano promesso di rimuovere la legge delle lingue officiali, che conferisce lo status di lingua ufficiale al russo e alle lingue di altre minoranze nazionali: l'ungherese, il rumeno, ecc. Ciò nonostante, sarebbe totalmente falso interpretare il conflitto in Ucraina come linguistico o culturale. L'ucraino, che predomina nelle regioni occidentali del paese, è molto poco diffuso a Kiev, anche se la classe intellettuale russofona della capitale fu raggiunta nel 2013 dall'euforia nazionalista, probabilmente più dei pragmatici contadini delle provincie di Lvov o Volynsk. All'aprire lo scrigno di Pandora delle lingue, le autorità riconobbero que avrebbero prodotto un'esplosione di insoddisfazione nelle regioni del sud-est dell'Ucraina, dove solo una minoranza insignificante fa uso dell'ucraino. Già da prima, il sud-est votava tradizionalmente per il Partito delle Regioni del destituito Yanukovich, e i gruppi radicali di destra e nazionalisti si appoggiarono nelle zone occidentali del paese. Nello stesso tempo, provocando un confitto intorno alla lingua russa, il nuovo governo cercava di cambiare la situazione, trasformando le contraddizioni sociopolitiche in nazionali.
La Russia, che inevitabilmente condannò questa politica, si può presentare ora come il principale colpevole di tutti i problemi dell'Ucraina, di quelli passati, i presenti e i futuri. Il piano funzionò, ma non completamente come si aspettavano i suoi autori. Il conflitto con la Russia, che si stava scomponendo in uno spazio di tempo già prolungato, si aggravò violentemente; una benedizione per il Cremlino fu l'apparizione di un nuovo nemico nella persona del governatore di Kiev, così utile nel contesto della situazione economica del Paese, che peggiorava. E gli abitanti del sud-est, prima abbastanza tranquilli e leali nei confronti di qualsiasi governo, non solo protestarono, ma si sollevarono apertamente. Inoltre, questa insurrezione attrasse alla sua orbita una quantità di gente molto più numerosa delle azioni nel Maidan di Kiev. Le proteste nel sud-est scoppiarono letteralmente in tutte le città, includendo i centri regionali. A differenza di Yanukovich, che per alcuni mesi cercò di mantenere la situazione sotto controllo ed evitare l'uso delle armi, il nuovo governo schierò per soffocare le proteste non solo la polizia, ma anche dopo la crisi a Kiev del Settore di Destra, il che successivamente provocò vittime umane. Gli attivisti del sud-est utilizzarono gli stessi metodi attraverso cui i radicali di destra imposero la loro volontà al governo precedente. Le manifestazioni di strada presto si trasformarono nella presa di edifici amministrativi. Quello che venne ideato come uno scoppio momentaneo si trasformò in una esplosione che portò a una distruzione senza ritorno.
Essenzialmente, quello che si distrusse fu il sistema statale ucraino. Le regioni del sud-est e anche la Crimea, abitata prevalentemente da russi etnici, iniziarono a reclamare l'unione con la Russia. Il Cremlino dovette reagire in qualche modo di fronte agli avvenimenti, a maggior ragione
quando la ribellione della Crimea e del sud-est risvegliò nel paese una simpatia massiva. La decisione presa dal Cremlino nei primi momenti sembrò la migliore possibile: dopo l'accordo con l'élite della Crimea, le autorità russe
province del sud-est ammutinato vennero liberate al loro stesso destino.
Tuttavia, il sollevamento nel sud-est non solo non si placcò ma, al contrario, si inasprì. Le forze di sicurezza russa appoggiarono apertamente il sollevamento, molte volte inoltre senza attendere l'opinione del Cremlino, la cosa in sé risultò una spiacevole sorpresa per Putin e la sua cerchia più vicina.
L'amministrazione del Cremlino, che aveva ricevuto un beneficio tattico, mise sotto di sé una bomba di azione immediata. La popolarità del presidente, che era aumentata drasticamente nel momento dell'annessione della Crimea, cominciò a calare di poco ma senza pausa, appena si vide con chiarezza che altre regioni non potevano aspettare nessun aiuto dalla Russia. Nel frattempo, nelle stesse regioni del sud-est dell'Ucraina successe qualcosa che non rallegrò per niente l'élite di Mosca: il movimento di difesa della lingua russa si trasformò a prima vista in una rivoluzione sociale.
Senza limitarsi alla presa di edifici dell'amministrazione provinciale, gli attivisti di Donetsk e Lugansk si pronunciarono per la creazione delle loro Repubbliche popolari. Inoltre a Donetsk iniziarono molto rapidamente ad acquisire le caratteristiche di un potere alternativo. Questo incentivò la presa di dipartimenti di polizia locali e altre istituzioni statali. Alcune prese furono realizzate dalle masse sollevate, ma in molti casi attuarono gruppi armati disciplinati, gli antichi collaboratori del corpo speciale di polizia Berkut e altre forze di sicurezza dell'Ucraina separate dal nuovo governo di Kiev, o disertori. Alcune divisioni lasciarono il servizio praticamente con il loro completo personale, portando con sé armi e munizioni. La propaganda ufficiale di Kiev reaggì chiamando ”gruppi commando russi” gli antichi collaboratori delle sue forze di sicurezza; tuttavia, per la popolazione prorussa del sud-est dell'Ucraina, queste denuncee non si vedevano come uno screditamento del sollevamento, ma piuttosto come pubblicità a favore. Quanto più si parlava a Kiev di un'ingerenza diretta e persino di una “occupazione” della regione da parte della Russia, tanta più gente in quei luoghi si univa alla protesta considerando che ora la Russia li avrebbe difesi e avrebbe appoggiato i ribelli.
Il nuovo governo di Kiev cominciò a ripetere rispetto agli “antimaidanisti” del sud-est tutte le imputazioni e teorie cospirative che alcuni mesi prima la propaganda di Yanukovich aveva utilizzato parlando del proprio “maidan”. Solo che ora tutto questo si sarebbe riprodotto su una scala dieci, cento volte maggiore, e avrebbe acquisito una forma del tutto grottesca. Tuttavia, le scale e la radicalità del confronto in nessun modo possono essere spiegati esclusivamente dalla logica di uno scontro politico. La politica economica del nuovo governo delimitò la linea di una forte divisione sociale, che nessuna retorica nazionale può occultare. Gli
oligarchi, che all'epoca di Yanukovich si approfittavano delle possibilità di un'influenza informale nel governo, ricevettero ora incarichi ufficiali come governatori. Poco dopo, le elezioni presidenziali organizzate dalla nuova amministrazione conferirono l' incarico di presidente a uno dei maggiori capitalisti del paese, Piotr Poroshenko, che nemmeno per salvare le apparenze cercò di nascondere la sua attività imprenditoriale. Dopo la firma di un accordo con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), il governo aumentò drasticamente i prezzi del gas e dei farmaci e tagliò i sussidi all'industria. La tendenza neoliberale che anche prima avevano seguito i circoli dirigenti sia in Russia che in Ucraina, con alcune eccezioni, ora si radicalizzò. Proprio per questo la retorica nazionalista divenne molto necessaria per Kiev: non gli restavano altri mezzi di consolidamento sociale. Nell'Ovest del paese e nella capitale, la crescente indignazione, dopo un pò, riuscì a conservare la retorica azionalista e la propaganda antirussa, ma rispetto agli abitanti agli abitanti dell'est, questi metodi producevano un effetto inverso. Cercando di placare l'incendio nell'ovest, il governo buttò più legna al fuoco nell'est.
La ribellione
Il primo intento di soffocare lo scontro nel sud-est con l'aiuto dell'Esercito Ucraino non riuscì nell'aprile di questo anno, quando una moltitudine di gente disarmata riuscì a fermare e persuadere una parte dei militari, facendo fallire l'”operazione antiterrorista” avviata da Kiev. Tuttavia, la scalata di violenze continuava. Il 2 di maggio, nelle strade di Odessa, ritornarono a prodursi scontri tra gruppi sostenitori del nuovo governo arrivati in città e i suoi oppositori, dopo di ché una moltitudine riunita dai combattenti del Settore di Destra incendiò la Casa dei Sindacati, insieme alla quale si erano riuniti attivisti locali di sinistra e prorussi. La gente che riusciva a scappare dal fuoco veniva fatta fuori nelle strade, e quando il fuoco cominciò a estinguersi, gruppi di combattenti commisero atti di rappresaglia contro coloro i quali erano nascosti negli appartamenti alti degli edifici, che non erano stati raggiunti dalle fiamme. Morirono almeno 46 persone, e molti dei quali sopravvissero furono arrestati dalla polizia. Il giorno seguente, una moltitudine sollevata di cittadini di Odessa liberò gli arrestati, ma alcuni di essi furono nuovamente arrestati o assassinati nei giorni successivi. Immediatamente dopo il pogrom di Odessa arrivarono notizie di fatti di violenza non meno crudeli a Mariupol, dove la guardia nazionale sparò e bruciò, nell'edificio della sezione di Affari Interni della città, a decine di poliziotti che si erano opposti a usare le armi contro la popolazione. Allo stesso tempo, nelle città che stavano sotto il controllo della Repubblica
di Donetsk9, iniziò un processo spontaneo di trasformazioni sociali: i lavoratori presero le fabbriche, le autorità locali nazionalizzarono le imprese, i minatori dichiararono lo sciopero e reclamarono un aumento del salario.
Dopo la tragedia di Odessa, la tendenza dell'Ucraina verso una guerra civile divenne irreversibile. Per gli abitanti di Donetsk e di Lugansk10, fu evidente che nel caso in cui non si fossero mantenute le loro repubbliche, gli aspettava la stessa sorte di Odessa. La richiesta per la federalizzazione dell'Ucraina, che inizialmente univa tutti gli oppositori di Kiev, ora era cambiata in una chiamata all'indipendenza assoluta o all'unione con la Russia. Ciò nonostante, le autorità russe chiaramente non erano disposte a unirsi con le provincie in mano a una popolazione ribellatasi con le armi, a maggior ragione quando una parte importante dei reclami sentiti in aprile e maggio nelle manifestazioni dei federalisti avrebbero potuto risuonare in modo non meno detonante in Russia, dove altresì era cresciuta la tensione tra il centro e le regioni. Nel referendum dell'11 maggio del 2014 fu proclamata la Repubblica Popolare di Donetsk e Krivoi Rog, creata nel 1918 dai bolscevichi e i socialisti rivoluzionari di sinistra. Tale repubblica fu sterminata dalle forze tedesche, con le cui baionette si impose l'autorità della Rada (Consiglio) Centrale di Kiev alle regioni del sud-est dell'Ucraina. Questa volta, la guerra civile si dispiega negli stessi fronti e, in larga misura, con lo stesso contenuto sociale (ma non ancora politico).
Anche se la lotta armata ebbe luogo nel territorio di due provincie, lo scontro non si limita a quei territori. A Jarkov, Odessa, Zaporizhia e altri centri dell'Ucraina si formarono organizzazioni clandestine che hanno per oggetto la fondazione di un nuovo Stato: Nuova Russia. A Kiev e nelle province dell'Ucraina centrale l'opposizione al potere si organizzò in gruppi fondamentalmente di sinistra, tra i quali il più conosciuto è il partito Borotba (lotta). Il governo rispose con repressione: gli uffici dei “borotbisti” furono destituiti e alcuni dei suoi leader hanno un mandato di cattura. A fine luglio anche il Partito Comunista dell' Ucraina fu bandito di fatto.
In questa situazione il Cremlino non aveva scelta: era obbligato ad appoggiare Donetsk e Lugansk. Tuttavia quest'appoggio era chiaramente forzato. Il governo russo cercò al massimo di utilizzare la sua influenza nei territori delle repubbliche sollevate per promuovere i suoi protetti nei posti chiave e ridurre al minimo il processo di trasformazioni sociali che era cominciato spontaneamente. Allo stesso tempo, i funzionari di Mosca lavorarono insieme alla gente dell'oligarca ucraino Rinat Ajmetov, che prima avrebbe finanziato il partito delle regioni, per influire questa volta in entrambi i lati del conflitto al . I rappresentanti di Ajmetov occuparono posti sia nell'amministrazione ufficiale che nelle strutture della repubblica di Donetsk, cercando con tutti i mezzi di frenare e bloccare le risoluzioni sulla nazionalizzazione e altre domande radicali degli insorti. Gli organismi del potere creati a Donetsk e Lugansk erano inefficienti già senza di esse, pieni di gente occasionale e non preparata per un serio lavoro autonomo. Quando si comprese che il sostegno di Mosca si sarebbe limitato alla fornitura di attrezzature militari e, di tanto in tanto di armamento obsoleto da magazzini del periodo sovietico, si scoprì in quale misura i sostenitori delle repubbliche non erano preparati per il
conflitto. E solo la mostruosa incompetenza dei militari ucraini, unita alla franca mancanza di volontà delle truppe di spargere sangue in una operazione punitiva, permise che i distaccamenti di miliziani formati alla leggera resistessero i primi due mesi di combattimenti. Il centro della ribellione fu la città di Slaviansk, il cui sistema difensivo fu comandato dal volontario russo Igor Strelkov, che dopo di ciò passo da essere uno specialista in storia militare conosciuto da pochi a leader militare popolare. Quando a luglio del 2014 i distaccamenti di Strelkov abbandonarono Slaviansk e si trasferirono a Donetsk, lui già aveva sotto il suo comando qualcosa di simile a un esercito regolare. L'arrivo di Strelkov a Donetsk fu accompagnato dall'esilio dagli organismi del potere della repubblica dei sostenitori di Ajmetov e di molta gente collegata con l'amministrazione del Cremlino, ai quali si colpevolizzava di aver cercato di cedere la città. Allo stesso tempo, arrivarono a Donetsk e a Lugansk masse di volontari dalla Russia, ispirati da ideali sia di sinistra che nazionalisti. Le domande sociali del movimento passavano di mano in mano con il motto “Difesa del mondo russo”, anche se erano pochi coloro i quali potevano dire precisamente in cosa consiste la differenza di questo “mondo” con altri “mondi”. L'ala sinistra del movimento si formò ideologicamente il 7 di luglio,
quando a Yalta, nel territorio della Crimea annesso alla Russia, i rappresentanti delle organizzazioni di sinistra della Nuova Russia si incontrarono con i loro confratelli russi e con attivisti occidentali del movimento antibellico. Il Manifesto di Yalta proclama come obiettivo della sua lotta il superamento del capitalismo oligarchico, la formazione di un'economia mista con uno sviluppo del settore sociale e la creazione di una “repubblica sociale” in tutto il territorio dell'Ucraina.
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La crisi ucraina avanzò allo svilupparsi di quella russa, e in gran parte cambiò il suo carattere, al provocare uno scontro con l'Occidente e porre in primo piano slogan di “dignità nazionale”. Precisamente l'Occidente, che pretende un'espansione dell' Organizzazione del Trattato dell'Atlantico del Nord (NATO) e l'inclusione dell'Ucraina nella sua sfera d'influenza, sta provocando un conflitto che Mosca cerca di evitare con tutte le sue forze. Tuttavia, non riuscirà ad evitarlo, poiché le contraddizioni palesate dalla crisi mondiale hanno un carattere obiettivo. Per la Russia, nel corso di questo scontro, passano al primo piano gli sforzi per l'indipendenza economica, che semplicemente non possono risolversi nell'ambito dell'ordine esistente e nel mentre che si conservino le strutture sociali e politiche precedenti. I circoli dirigenti moscoviti della Russia cercarono di unire forzatamente una politica estera indipendente con un ordine interno conservatore. Ampliano la cooperazione con i paesi del BRICS, invitando a una trasformazione delle regole economiche internazionali, ma queste regole, a loro volta, sono la condizione fondamentale dell'esistenza e della prosperità dell'oligarchia russa. In altre parole, lo sviluppo degli avvenimenti inevitabilmente trasformerà un conflitto di politica estera in uno scontro di politica interna e sociale.
La “democrazia dirigista” russa passerà alla storia dietro la storia oligarchica ucraina. E chissà, può essere che precisamente in queste convulsioni stia nascendo oggi non solo una nuova Russia, ma anche una nuova Europa.
* Boris Kagarlitski: sociologo e storico. E' il direttore dell'Istituto di Studi sulla Globalizzazione e Movimenti Sociali (IGSO), con sede a Mosca. Ricevette il Deutscher Memorial Prize per il suo libro The thinking Reed: Intellectuals and the Soviet State (Verso, Londra, 1988).
** Nota: Traduzione dal russo allo spagnolo di Fulvio Franchi. L?articolo è copia fedele di quello pubblicato nella rivista NUEVA SOCIEDAD N° 253, settembre-ottobre 2014, ISSN: 0251-3552, www.nuso.org.
***Nota: Traduzione dallo spagnolo all'italiano di Laura Buluggiu.
1 Mosca e San Pietroburgo.
2 Putin esercitò la Presidenza della Russia tra il 2000 e il 2008 e ritornò all'incarico nel 2012; nel frattempo occupò l'incarico di primo ministro, con Dmitri Medvedev -il suo “delfino”- a capo del Potere Esecutivo.
3 Riferimento a una parte di un messaggio di Putin al Parlamento Russo del 12 di dicembre del 2012, che fu ampiamente commentato: “Oggi la società russa ha un chiaro deficit di appigli spirituali: umiltà, compassione, commiserazione di uno per l'altro, sostegno e aiuto reciproco, un deficit di tutto quello che in momenti storici ci rese più forti, più resistenti e di cui ci siamo sempre inorgogliti”.
4 I rappresentanti dell'imprenditorialità si indignavano pubblicamente dinnanzi a qualsiasi intento del potere statale di passare da un sistema di obblighi reciproci non formali all'osservazione formale delle leggi in stile europeo. Precisamente questi intenti, anche se molto timidi, intrapresi dalle autorità negli anni 2010-2011, provocarono una furiosa indignazione nei circoli liberali della Russia e un' ondata non meno indignata di pubblicazioni in Occidente a proposito della “persecuzione delle imprese”.
5 Il Fronte di Sinistra raggruppa dagli anarchici sino a i neostalinisti, passando per i liberali di sinistra e comunisti critici. Negli ultimi tempi mancò di una leadership unificatrice capace di dare coerenza a questa diversità.
6 Piazza dell'Indipendenza.
7 Partito centrista di base russofono creato nel 1997 con il nome di Partito della Rinascita Regionale dell' Ucraina.
8 In ucraino , rispettivamente, “Patria”, “Golpe” e “Libertà”. Rigorosamente, UDAR è l'acronimo in ucraino di Alleanza Democratica Ucraina per la Riforma, che coincide con la parola “UDAR” (golpe).
9 Stato autoproclamato dagli attivisti filorussi dal 7 di aprile del 2014.
10 Anche nella città di Lugansk si autoproclamò la Repubblica Popolare di Lugansk il 27 di aprile del 2014.